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“Neanch’io ti condanno”. Introduzione alla Lectio divina di Gv 8,1-11

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V domenica di Quaresima

 

[1] Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. [2] Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava . [3] Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, [4] gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. [5] Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. E tu cosa dici?”. [6] Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. [7] E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. [8] E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. [9] Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani, e fu lasciato solo Gesù con la donna là in mezzo. [10] Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. [11] Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.

 

   La liturgia di questa quinta domenica di Quaresima continua la narrazione del volto misericordioso del Padre. Misericordia è la pazienza di Dio (la parabola del fico  Lc 13, 7-9); è l’amore che perdona incondizionatamente (il Padre misericordioso, Lc 15, 1-3. 11-32); è, in questi versetti, la salvezza che prevale sul giudizio e la condanna.

 

 

   Capovolgimento di ogni parametro umano, questo amore, capace di guardare nel cuore dell’uomo e della sua fragilità, diventa scandalo agli occhi di coloro i quali sovrappongono la propria visione di Dio a quella che Gesù, unico e vero interprete della Legge, è venuto a narrarci.

 

 

   Uno scandalo che ha attraversato persino la storia “erratica” di questo brano (probabilmente di matrice lucana ma successivamente inserito nel vangelo di Giovanni), riconosciuto come autentico Vangelo, ma ignorato dai padri della Chiesa greca fino al primo millennio e avversato ancora nel Concilio di Trento.

 

   

   Il contesto è polemico; il brano, infatti, è preceduto da una pericope in cui Gesù, “acqua viva” (Gv 7,37 ) pone l’uomo di fronte ad una scelta (Gv 7, 40-43), attirando su di sé l’avversione degli scribi e dei farisei, i “giusti” di Israele, i quali tramano per trovare un’occasione per arrestarlo.

   

   L’occasione viene data da un fatto che vede come protagonista inerme una donna che, sorpresa in flagrante adulterio, viene condotta da Gesù. Per la Legge mosaica (per la quale rompere l’alleanza matrimoniale significava rompere l’alleanza con Dio), questa donna deve essere lapidata. La motivazione per la sua condanna a morte è dunque ineccepibile. Ma tale orribile rito allora usuale (e, purtroppo, in alcune culture ancora perpetrato) diventa qui occasione per cogliere in fallo Gesù: se, infatti, Egli conferma la Legge, abbandonando la donna al suo tragico destino, sconfessa se stesso e i suoi insegnamenti; se, al contrario, si pronuncia a favore della donna, sconfessa la Legge di Mosè, firmando così la sua stessa condanna.

 

   In questo gioco perverso, la donna è solo capro espiatorio; non ne viene detto il nome, né la storia personale: è solo mero strumento per raggiungere l’obiettivo degli avversari di Gesù.

 

   Posta nel mezzo, essa viene circondata da questo cerchio di morte, mentre i “giusti” di Israele sembrano a loro volta accerchiare Gesù (“insistevano nell’interrogarlo”), ponendo una domanda che si auto-argomenta e la cui risposta sembra non ammettere interpretazioni diverse.

 

   Ma Egli sfugge al tranello e ribalta del tutto la questione. Si china per terra e scrive. Non sappiamo cosa. Quelle parole, o segni che siano, inevitabilmente andati perduti con un soffio di vento, rimangono per noi mistero; ciò che rimane è il gesto che probabilmente richiama ad una Legge che, non più scritta sulla pietra, in Gesù Cristo vuole essere inscritta nella fragilità dell’uomo. Ciò che di sicuro rimane è quell’invito forte a guardare dentro se stessi: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”.

 

   Gesù non contesta la Legge, non entra nel merito; non contesta il peccato, né difende o scusa la donna; va ben oltre: sposta il focus della questione e mette gli astanti innanzi a se stessi, ai propri peccati che accomunano tutti gli uomini: nessuno,infatti, tranne Cristo, può considerarsi esente dal peccato.

 

   Alle parole insistenti con cui essi avevano incalzato Gesù, segue ora il silenzio: la loro arroganza e la loro supponenza svaniscono in un istante: ad uno ad uno vanno via, e i primi sono gli anziani, probabilmente a indicare che chi più ha vissuto,più consapevole è di come il peccato attraversa la vita di ogni essere umano. Quell’accerchiamento di uomini pronti a eseguire, secondo Legge, la loro sentenza, si dissolve lasciando, l’uno di fronte all’altro, Gesù e la donna; ad essa Egli rivolge la parola, sotto forma di domanda: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?” La donna, fino a quel momento silente e inerme, non degna neppure di uno sguardo, risponde: “Nessuno, Signore”.

 

   Restituita alla sua dignità di “donna”, non più definita dalla sua colpa, essa viene invece toccata da una parola di vita: “Neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più”. Parola accompagnata da gesti eloquenti: dapprima ai suoi  piedi, Gesù, chino davanti a lei, ora si alza. In questo chinarsi di Cristo c’è il suo essere ai piedi dell’uomo, per accoglierlo nel suo peccato; nel suo rialzarsi, la vita offerta alla donna, prefigurazione di quella resurrezione che il Figlio di Dio costantemente porta a ciascuno di noi.

 

   Sul peccato, che non viene misconosciuto, prevale il volto del peccatore; a questi Gesù rivolge non parole di condanna, ma una parola di speranza: in quel “va’ ” c’è tutto il senso di una vita, di una libertà e di una dignità restituita. E, ancora una volta, senza o prima che ci sia stato pentimento o conversione. Diversamente dai farisei che, facendosi scudo della Legge e dei suoi precetti, “legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente” (Lc 23,4), Gesù riversa, sulla fragilità umana, sull’errore e sul peccato, la parola di salvezza; non la condanna e la morte, dunque, ma la possibilità di risollevarsi, sempre e comunque, di risorgere a vita nuova, di rimettersi in cammino.

 

   Messaggio scandaloso per chi considera l’esercizio della giustizia come esercizio di potere e di condanna; per chi definisce l’uomo solo attraverso il suo peccato, rinchiudendolo e costringendolo all’interno del suo errore. Non viene messa in discussione la gravità del peccato (vari e di varia entità sono i peccati, in qualche caso anche in riferimento alle sensibilità culturali e alle diverse percezioni che se ne ha) ma viene proposta, invece, l’unica medicina che può redimere il peccatore: la possibilità di ricominciare e di riprendere la propria vita, di immaginare un futuro.

 

   È ciò che la Chiesa deve fare, il messaggio di cui i cristiani devono essere portatori: liberare, dare speranza, essere testimoni del Dio che ci ama. Così la parola salvifica di Gesù, “neanch’io ti condanno, va’”, spezza il recinto delle proprie colpe, per aprire a un cammino che ogni giorno, a partire dalle proprie miserie, può e deve sempre ricominciare. Questa è la buona notizia, questo è il volto del Padre misericordioso.

 

                                                                                                                                                                                                            Alessandra Colonna Romano

                                                                                                                                                                                                                           Comunità Kairòs

 

 

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