Il 31 dicembre 2022 a nove anni dalle, tanto inaspettate che clamorose dimissioni, Joseph Ratzinger, divenuto papa il 19 aprile 2005 con il nome di Benedetto XVI, lasciava questo mondo per ricongiungersi a quel Cristo a cui aveva dedicato l’intera sua vita.
Benedetto XVI, non a caso aveva scelto quel nome, aveva vissuto quei nove lunghi anni, nell’ombra, in grande e spesso dolorosa difficoltà attento a non essere d’intralcio al magistero del suo successore, sfuggendo così alle facili strumentalizzazioni di chi avrebbe voluto contrapporlo a papa Francesco.
Uomo colto e, per certi versi, enigmatico va, a nostro giudizio, iscritto alla categoria dei vinti, infatti pur guidato da una fede robusta e indiscutibile, si accorge che il mondo, quel mondo che avrebbe voluto riportare a Cristo, si muove molto spesso in una direzione contraria e che gli argini che ha tentato di costruire a quella che considera una deriva, non sono in grado di reggere per cui non rassegnandosi alla sconfitta individua nella rinuncia, nel passare la mano, l’unica via praticabile.
Qui si pone ovvia una domanda: si trattò di un atto di viltà, e la memoria va all’interpretazione dantesca dell’analogo atto di papa Celestino, ovvero, un atto di suprema responsabilità nei confronti della Chiesa?
Personalmente, tenendo soprattutto conto del percorso personale e storico di Ratzinger, penso che la risposta non possa che essere la seconda. Benedetto, umile lavoratore nella vigna del Signore, a dispetto della sua apparente fragilità fisica, è stato infatti un lottatore che, guidato dalla fede, come San Paolo ha “combattuto la buona battaglia”, una battaglia che da pontefice è durata ben otto anni, contro le devastanti ideologie del secolo, sforzandosi di dimostrare che il Cristianesimo non è in contraddizione con la modernità ma, dopo il fallimento delle ideologie che promettevano paradisi in terra, paradossalmente ne è la risposta.
Di fatto è stato un esempio nei confronti di quei cristiani che, per sfuggire all’accusa di “fondamentalismo”, si dichiarano disponibili al compromesso, rinunciano alla “chiarezza” della fede si lasciano trasportare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, in quanto ritengono che questo sia “l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni”.
Per papa Benedetto è proprio il relativismo, il nemico del tempo presente, per cui lo bolla come atteggiamento “totalmente inadeguato a far da comune fondamento su cui poter vivere”.
Un discorso che si indirizza soprattutto alla civile e ricca Europa, ed ai suoi intellettuali in gran parte compresi nello sforzo della ricerca di nuovi percorsi per praticare i quali ritengono necessario il ripudio della propria identità cristiana.
Benedetto, con il suo stile mite, la sua “fulgidissima intelligenza” si è sforzato di far comprendere i limiti e gli errori di tale prospettiva, dimostrando che il discorso religioso e quello cristiano, in particolare, non è “sottocultura” o “incultura” della quale è urgente liberarsi per l’affermazione piena dell’uomo razionale.
Proprio a questo mondo, spesso nutrito di luoghi comuni e altrettanto spesso affascinato dalle mode, spiega infatti che “fede e ragione” non sono contrapposte ma fra loro dialogano, e debbono dialogare, anche per frenare le vere derive fondamentaliste il cui pericolo, alimentato da un poco razionale “senso di colpa”, l’Occidente, presta poca attenzione.
E il tema, ad esempio dell’Islam, sul quale papa Ratzinger nella sua lectio di Ratisbona afferma, richiamando le parole di Manuele II Paleologo, un imperatore Bizantino che nel XVI secolo, che al Sultano di Ankara disse: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”.
Parole durissime, definite dallo stesso pontefice talmente brusche “al punto da essere per noi inaccettabili” ma, anche, verità poco discutibili che il dominio del politicamente corretto, ci impedisce di pronunciare per il timore di offendere le altrui culture, anche e laddove le culture che non si intendono offendere si manifestano palesemente come strumenti contro l’uomo e la sua dignità.
A Benedetto XVI, per usare le parole del sociologo Sergio Belardinelli, dobbiamo dunque ammirazione e gratitudine perché difendendo la fede “ha avuto il coraggio di difendere la verità nella tragedia culturale del nostro Occidente”.
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