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Il Natale dell’uomo

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di Giuseppe Savagnone

 

Molti credono che la trasformazione del Natale cristiano in una secolarizzata festa del solstizio d’inverno – ormai in atto in molti paesi d’Europa – sia un indizio della crisi della fede in Dio. In realtà essa riguarda la fede nell’uomo. Essa rispecchia, infatti, una visione del mondo e della vita, propria dell’antichità e riproposta da Nietzsche, che, puntando sul modello delle stagioni della natura, con la loro ciclicità, appiattisce su di esse anche la storia umana e la concepisce come un eterno ritorno senza possibile novità.

Il Natale è un evento, unico e irripetibile. Invece, il passaggio dal tempo in cui il giorno lascia posto sempre più alla notte a quello in cui la luce solare ricomincia a prendere il sopravvento – appunto, il solstizio d’inverno –  è un fenomeno che si è ripetuto innumerevoli volte e innumerevoli volte si ripeterà, sempre uguale. Era la festa pagana del Natalis Solis invicti, che cadeva alla fine di dicembre. 

I cristiani la utilizzarono per la celebrazione della nascita di Gesù. Ma non era soltanto una questione di nomi. Che si festeggi la prima oppure la seconda ci dice qualcosa non tanto su Dio, quanto su come noi uomini concepiamo la nostra esistenza. Con l’una si sanciva  l’immutabilità del destino umano, caratterizzato dal continuo ricorso di ciò che era già stato. Con l’altra si voleva esprimere la fiducia che qualcosa di nuovo  può accadere, anzi è già accaduto in quella lontana notte di duemila anni fa, e opera ormai incessantemente, pur senza rumore, per trasformare la nostra vita a livello sia personale che comunitario.

Alla base della prima c’era la rassegnazione  ad un cieco Fato, senza volto e senza nome, che  non tiene in alcun conto i volti dei singoli esseri umani. Alla base della seconda,  la gioiosa scoperta che Dio è un Padre che ama talmente il mondo da donargli suo Figlio, per salvarlo dal male in cui esso è immerso.

Di più: in tutta la tradizione cristiana, la nascita di Gesù è sempre stata considerata il pegno del suo ritorno, alla fine della storia, per darle compimento. Si parla perciò di due “venute”, di cui la prima, quella già verificatasi nel passato,  ci mette in condizione di tendere alla seconda, quella futura, impegnando operosamente le nostre energie per prepararla. Invece del modello circolare, il Natale ne propone uno lineare, che rende importanti le scelte personali in vista del progresso verso una meta.

Perciò il suo declino, nella coscienza diffusa, nasconde, in realtà, il tramonto del senso del futuro  e della speranza nelle nostre società iper-moderne (Martin Heidegger, vedeva nello stesso nome dell’Occidente – “terra del tramonto” – il segno del suo destino). 

Ed è proprio la speranza che sembra latitare nell’atmosfera delle feste natalizie di quest’anno. Ma non sono in gioco solo le possibilità di ripresa del nostro paese. Quello che ormai da tempo si respira è la percezione di una mancanza di prospettive che coinvolge tutto il sistema economico delle nazioni più progredite. Dopo la fine del socialismo, il capitalismo – rimasto l’unica alternativa percorribile – aveva l’arduo compito di far dimenticare le sue tragiche origini e di legittimarsi come una strada   compatibile con la giustizia sociale e con la dignità delle persone.   I suoi ultimi sviluppi, a partire soprattutto dal 2008 – anno dell’inizio della grande crisi – hanno smentito questa speranza.

E diventa sempre più chiaro che non siamo davanti a una fase passeggera e che il vero volto dell’economia mondiale è quella che sta maturando in questi anni. Alla luce di quanto accade – non solo in Italia, ma nel mondo – possiamo solo prendere atto che il capitalismo, così com’è,  si sta qualificando non solo e non tanto  in riferimento al mercato, ma come quel modo di gestire il mercato che fa diventare i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Il predominio assoluto della finanza sull’economia – in altri termini, la prevalenza dei profitti che derivano dal denaro rispetto a quelli che premiano, giustamente, la produzione di beni e di servizi – , evidenzia l’assurdità di questa logica, ma sembra al tempo stesso avallare la pretesa della sua ineluttabilità.

Non è un caso, a questo punto, che la festa del Natale sia sempre più sostituita da  quella che celebra l’eterno, inesorabile ritorno delle stagioni. Solo che non è così facile sbarazzarsi di un Ospite divino. Ci provarono gli uomini di duemila anni fa, prima rifiutandogli un posto decente in cui nascere, poi tentando di farlo fuori con la strage degli innocenti. Altro che abolizione della festa! Ma a Dio, per venire ad abitare nella nostra storia e trasformarla,  bastano pochi uomini e donne aperti al mistero, capaci di fargli posto nella propria vita e di irradiare la luce della sua nascita.

E anche oggi questo rimane possibile. Per chi crede nel Natale, quello vero, il Fato non esiste. Perciò il capitalismo selvaggio dei finanzieri senza scrupoli non  è invincibile. La dottrina sociale della Chiesa  e soprattutto l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate, col supporto di economisti seri come Zamagni, Bruni, Becchetti, ci assicurano che possiamo costruire una società e un’economia diverse, un mercato in cui l’etica non sia un limite estrinseco ma un valore interno. Nel futuro, certo. Ma se Dio è venuto a trasformare la storia, con la sua nascita, noi abbiamo il diritto, anzi il dovere di sperare in questo futuro e di realizzarlo con i nostri sforzi. 

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