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Il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?

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Introduzione alla Lectio Divina per domenica 16 ottobre 2016 (XXIX del Tempo Ordinario)
su Lc 18, 1-8

 

lectio12.10.16

 

di Onorina Spera

 

 


91 Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: 2 «C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. 3 In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. 4 Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, 5 poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi». 6 E il Signore soggiunse: «Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. 7 E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? 8 Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».


 

 

Il capitolo 17 si era chiuso con la descrizione del «giorno» del Figlio dell’uomo, giudice del mondo, che coglierà di sorpresa chiunque non è preparato. Dentro questo contesto escatologico Gesù propone una parabola «sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai»: la preghiera è la via per entrare in sintonia con il Regno, per sperimentarne la forza, per avere la certezza che già adesso è presente, pur essendo sempre in attesa della sua pienezza. La preghiera non è un modo per sfuggire alla durezza della realtà, per alienarsi dal presente in attesa di un futuro felice: è anzi il coraggio di immergersi nella realtà più vera «senza scoraggiarsi». Il verbo greco enkakèo/ekkakèo ha il significato di «agire male/stancarsi/di venire meno/scoraggiarsi/perdersi d’animo» e rimanda all’abbandono delle armi da parte di un soldato durante il combattimento. In questo senso, è proprio durante la lotta che bisogna intensificare la preghiera per avere la forza di continuare a lottare e non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento fino al punto di disertare dalla vita, dall’impegno e dalla fatica di affrontare le difficoltà.

 

Nel racconto della parabola del giudice ingiusto, esclusivamente lucano, sono presentati due personaggi della vita reale che si trovano in condizioni opposte, un giudice empio senza considerazione verso Dio e verso il prossimo, ed una povera vedova che non desiste dal lottare per i suoi diritti.

 

Di fronte a un giudice che non crede in niente se non nel suo poter fare quello che vuole senza essere turbato da nessuno, la vedova senza alcuna esitazione esprime la sua richiesta: «Fammi giustizia contro il mio avversario». La forza del giudice è fondata solo sulla sua presunzione, ma la forza della povera donna è fondata sulla giustizia: avrebbe ogni motivo per scoraggiarsi ma il suo bisogno, la sua povertà diventa il suo coraggio.

 

Il giudice non può resistere a lungo e dice dentro di sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi».Il commento del Signore ci sorprende: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente».

 

Spesso, nella concezione della preghiera ridotta esclusivamente a richiesta, riduciamo Dio ad un “tappabuchi”, per usare una definizione di Bonhöffer, che esaudisce i nostri bisogni o compie quanto noi non siamo in grado di realizzare. Comprendiamo, adesso, che pregare è fidarsi dell’ascolto del Giudice che «farà giustizia prontamente» e la farà a noi, che – in questa parabola – possiamo anche rischiosamente riconoscerci nei panni degli «eletti », ma che più realisticamente ci ritroviamo nella condizione della «vedova» che cerca giustizia a causa di un duro «avversario».

 

Siamo, cioè, persone che sono state amate una volta per tutte, eppure continuano a sperimentare la fragilità dell’incomprensione, della separazione e dello strappo. E lo sperimentano nella propria esistenza, nell’anelito a Dio, nella relazione con gli altri, nel rapporto con i custodi delle norme. Personaggi importanti, questi ultimi, in tutte le società e in tutte le religioni. Nel testo di Luca sono rappresentati – con un’immagine davvero senza tempo – nella figura del «giudice disonesto», cioè dell’uomo del potere e delle regole, ma pieno di sé, indolente, indifferente alla verità e alle ferite delle vite degli altri. Uno che si risolve a fare il proprio dovere, e a riconoscere il vero bene da tutelare, solo perché viene incalzato in maniera assillante e addirittura allarmante.

 

Tuttavia una giustizia più alta e certa c’è. E Dio – dice Gesù – non farà «a lungo aspettare». È un annuncio che consola e scalda il cuore. Eppure, poche sillabe dopo, questa straordinaria parola di luce viene trafitta d’ombra dalla domanda che suggella la parabola e la lascia per sempre aperta nella nostra memoria e nelle nostre smemoratezze: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

L’interrogativo è come una lancia nel costato. Sento che mi chiede conto della vita che faccio e del mio mestiere, che – come ogni lavoro – può farsi preghiera e via verso la giustizia, oppure no.

 

San Giovanni della Croce ha saputo dirlo in modo fulmineo e indimenticabile: alla sera della vita, «saremo giudicati sull’amore», sulla verità dell’amore che abbiamo saputo vivere. E alla sera dei tempi, il metro che misurerà le nostre esistenze sarà ancora e sempre l’amore, l’amore che si è fatto atto di giustizia, cioè reale riconoscimento del Giusto che continua a incrociare il nostro cammino, e che ci «importuna».

 

Il Figlio dell’uomo continua a tornare nella città dell’uomo. E proprio in me, in noi, continua a cercare l’amore che ha insegnato, a saggiare la fede di cui siamo capaci. 

 


 

 

 

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