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Dal nostro corrispondente

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di Giuseppe Savagnone

 

    Scrivo questo “chiaroscuro” da Firenze, dove sto partecipando al V convegno delle Chiese d’Italia. Se ne è parlato molto poco nelle nostre comunità e il clima in cui comincia appare tutt’altro che di attesa. Eppure è già in sé un grande evento simbolico di comunione. Alla domanda che molti si fanno – «Perché questi convegni, ogni dieci anni?» – mi sembra che la risposta tutto sommato più convincente sia: perché, in una Chiesa la cui universalità di principio si paga spesso con un particolarismo e una frammentazione di fatto che rendono debolissimo il senso di appartenenza comunitaria al di là della propria parrocchia, del proprio gruppo, del proprio movimento, questi sono momenti preziosi di fraternità e di scambio tra persone provenienti da regioni ed esperienze vitali molto diverse.

    E così è anche in questi giorni, a Firenze: delegati e delegate della Sicilia e del Piemonte, della Toscana e della Basilicata, giovani e vecchi, operai e docenti di università, si ritrovano a pregare, a cantare a discutere insieme per quattro intense giornate, senza imbarazzo, senza pregiudizi reciproci. Felici di condividere la stessa fede e di poter sperimentare in pratica che il contenuto di questa fede è l’amore – non per il parente, l’amico, il “vicino”, ma per il diverso, lo sconosciuto, l’“altro”. E il frutto di questo grande dono di comunicazione con i “lontani” dovrebbe ricadere, grazie ai delegati, su tutte le nostre comunità.

    E poi c’è stato papa Francesco. Ai convegni ecclesiali nazionali i pontefici hanno sempre dedicato una visita, ma a metà del loro svolgimento. Questa volta Francesco ha voluto venire all’inizio, nell’evidente intento di dare un tono alla discussione del tema dell’assise: In Cristo il nuovo umanesimo. E lo ha detto, al modo inconfondibile che è il suo. Nel discorso della mattina, in una cattedrale gremita dalla folla attentissima ed entusiasta dei duemilacinquecento delegati, ha invitato le nostre Chiese a ricordare e rivivere lo spirito di avventura dei  grandi esploratori italiani del passato, che con le loro navi hanno solcato gli oceani, proiettati lontano delle loro sicure dimore. «Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa», ha detto il papa. Ciò non è senza rischi, ma vale la pena di correrli: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» ha sottolineato tra gli applausi.

    Per questo bisogna rimettere in discussione la logica che spesso nelle grandi istituzioni prende il sopravvento: «Non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa». Al contrario, ha detto Francesco, «mi piace una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti». Perché –  ha spiegato in un passaggio del discorso che nei resoconti dei giornali non è stato riportato, ma che a mio avviso è tra i più profondi e più belli – «il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda. Dio – che è “l’essere di cui non si può pensare il maggiore”, come diceva sant’Anselmo, il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto».

    Il centro è in fondo quell’“uscire” che è un filo conduttore di tutto il pontificato e che anche il convegno di Firenze assume come la prima via per un nuovo umanesimo. Per questo, ha ricordato Francesco, bisogna liberarsi dalla «paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze».

Mi sia concessa, in margine, una riflessione. Ho sentito spesso citare il papa da cattolici bene intenzionati che stanno conducendo una campagna estrema sul tema del gender e a cui non ho mai sentito dire una sola parola di umana comprensione – non di accettazione! – delle ragioni e della sofferenza del persone in carne ed ossa che vivono questi  problemi. Vogliamo provare a seguire davvero l’insegnamento di Francesco, adottando uno stile di dialogo anche in questo ambito?

    «E i valori non negoziabili?», potrebbe chiedere qualcuno. La risposta è nella concezione che il papa propone del dialogo: «Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti». E se non si è d’accordo? «Molte volte l’incontro si vede coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo».

    «Ricordatevi inoltre» – ha rimarcato Francesco – «che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà». Mi viene ancora una volta in mente un pensiero: e se provassimo davvero a lavorare per la famiglia, non solo battagliando contro una possibile normativa che riconosca le unioni civili, ma innanzi tutto coalizzando tutte le forze sane del Paese in un’alleanza volta ad assicurare alle nostre famiglie quel sostegno economico e quelle strutture di sostegno (asili nido, etc.) che in altri Paesi europei sono da tempo realizzati?

    Il convegno di Firenze si è aperto sotto la spinta possente  delle parole di Francesco. Non so, ovviamente, come si concluderà. Ma è un’occasione importante, per le nostre Chiese, di tradurre nella loro concreta esperienza pastorale, situata in un determinato territorio, il messaggio che il sommo pontefice già da tempo rivolge alla Chiesa universale. Un’occasione su cui tutti siamo chiamati a fare attenzione. Perché quelle del papa non restino parole inascoltate.

 

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