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Lo stupro di Palermo, una società allo specchio

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Foto di Ehimetalor Akhere Unuabona su Unsplash

Giustizia e vendetta

Fiumi di parole sono stati versati sullo “stupro di Palermo” e non è il caso di aggiungere altro su questo drammatico episodio di violenza. Vale la pena, invece, di fermarsi a riflettere sul modo in cui esso è stato letto e interpretato dai quotidiani e dall’opinione pubblica.

È inquietante che molte reazioni siano state all’insegna di logiche del tutto simmetriche, anche se in senso contrario, a quella dell’abuso stesso. In un post che ha avuto vastissima eco, il cantante Ermal Meta  – riferendosi all’immagine usata da uno degli stupratori , che aveva parlato di «cento cani sopra una gatta» – ha scritto: «Lì in galera, se mai ci andrete, ad ognuno di voi “cani” auguro di finire sotto 100 lupi in modo che capiate cos’è uno stupro». Toni analoghi sui social, dove del resto abitualmente si riversano stati d’animo poco inclini alla pacata riflessione e alla moderazione.

Ora, è perfettamente comprensibile e condivisibile l’indignazione per l’accaduto. Ma la risposta alla gravità del delitto, in una società civile, non è il ricorso alla legge del taglione – “occhio per occhio, dente per dente” – e tanto meno il linciaggio. Fare giustizia comporta la rinuncia – a volte, come in questo caso, difficile – ad abbandonarsi a stati d’animo incontrollati di odio e di vendetta, che da un lato ledono il diritto dei sospettati alla difesa e al legittimo dubbio sulle loro responsabilità (secondo l’art. 27 della nostra Costituzione «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»), dall’altro rischiano di imbarbarire la comunità civile che vi si abbandona, mettendola sullo stesso piano dei violenti che condanna.

Ma si possono scambiare i “no” per sì”?

All’estremo opposto il consiglio rivolto alle ragazze da Andrea Giambruno, giornalista di Rete 4 e compagno della premier Giorgia Meloni, durante la puntata di Diario del Giorno: «Se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi rischi, effettivamente, che il lupo lo trovi».

Una frase che ha suscitato molte polemiche, perché è sembrata ribaltare sulla vittima la responsabilità di quanto accaduto e riflettere una tendenza, ancora molto diffusa nel nostro Paese, a sminuire le responsabilità di chi aggredisce sessualmente una donna, puntando sulla vera o presunta equivocità dei comportamenti di quest’ultima.

Proprio nei giorni scorsi il GUP del tribunale di Firenze ha motivato l’assoluzione di due ragazzi, 19enni all’epoca dei fatti, dall’accusa di violenza sessuale ai danni di una 18enne, perché sarebbero stati sviati da una «errata percezione» circa il presunto consenso da parte della ragazza. Secondo il magistrato l’equivoco degli aggressori «se non cancella l’esistenza oggettiva di una condotta di violenza sessuale, impedisce di ritenere penalmente rilevante la loro condotta».

Si ha l’impressione che molti – compresi anche dei giudici – non abbiano ancora preso atto del cambiamento di costume intervenuto in questi anni nei rapporti tra uomini e donne e continuino a dare credito allo stereotipo dei “no” detti per civetteria e che nasconderebbe un implicito incoraggiamento. Così era spesso in passato. Oggi una ragazza non ha più di questi falsi pudori a manifestare il proprio consenso: se vuole dire “sì”, lo dice senza tanti giri di parole, se dice “no” vuol dire “no”. E chi la forza a fare il contrario sta violando la sua libertà.

Dietro lo schermo

Una reazione che fa molto riflettere è stata quella delle migliaia di persone che su Telegram hanno scatenato una vera e propria caccia al video realizzato in diretta da uno dei violentatori e diffuso in rete. Uno spettacolo, secondo lo stile dominante nella nostra società, dove la realtà è ormai spesso identificata con la sua rappresentazione virtuale.

Al riparo dello schermo del proprio smartphone o del proprio computer si vogliono vivere esperienze che non si avrebbe il coraggio di fare direttamente. Dove la parola “schermo” assume il significato di “difesa”, “riparo”, come quando ci si fa “schermo con le mani”.

Con l’ovvia conseguenza di mettere alla gogna innanzi tutto la vittima della violenza, che, oltre a subire quella dei sette energumeni che hanno abusato fisicamente di lei, si trova ora massacrata da quella dei social, che sanciscono pubblicamente il suo essere “oggetto”.

Davvero la libertà può essere l’unico criterio del bene e del male?

Ma c’è ancora un ultimo aspetto del dibattito che ha fatto seguito allo stupro di Palermo e che forse è ancora più emblematico della profonda trasformazione culturale che la nostra società ha vissuto rispetto al passato. Colpisce che la condanna, giustissima, della violenza, da parte dei media e dell’opinione pubblica, non abbia mai fatto ricorso alle categorie di “bene” e di “male”, ma si sia fondata esclusivamente sulla violazione del diritto della ragazza di disporre del proprio corpo.

È per questo, non perché la dignità di un essere umano è stata calpestata, ridotta dal branco ad oggetto di piacere, che stampa, associazioni femministe, social, si sono indignati. Il male oggettivo della violenza che è stata perpetrata è stato interamente risolto in quello della libertà o meno del consenso.

Lo squallore di un accoppiamento animalesco – «cento cani sopra una gatta» – sarebbe d’incanto cancellato e riportato alla più accettabile normalità, se si dimostrasse – come cercano di fare (peraltro, in questo caso, vanamente) gli indiziati – che “la ragazza ci stava”. Niente è più buono o cattivo in sé, l’unico parametro di valore è la percezione che ne ha l’individuo e che dà significato ai fatti e ai comportamenti.

È la logica a cui si ispira la nostra società anche nel campo della sessualità. Nessuno si scandalizza della esibizione indiscriminata dei corpi – soprattutto di quello femminile – per pubblicizzare prodotti commerciali o per alimentare l’industria della pornografia. Ognuno del suo corpo può fare quello che vuole.

Salvo poi a chiedersi se questa volontà sia davvero frutto di scelte consapevoli o non venga a sua volta condizionata alla radice da una serie di fattori fisici, psicologici, economici, sociali, culturali, che la rendono assai meno libera di quanto crede di essere.

Quante sono le donne che – all’insegna dell’orgoglioso slogan femminista “l’utero è mio e ne faccio quello che voglio” – sono costrette, in realtà, a vivere il trauma (così lo descrivono tutte) dell’aborto perché non sono in grado di mantenere il figlio che dovrebbe nascere? E davvero la gestazione per altri – che riduce l’intimo e delicato rapporto della madre biologica con il figlio che le cresce in grembo a quello di una incubatrice – è una scelta indipendente dalla necessità economica?

Del resto, se fosse vero che la sola cosa che conta è il libero consenso, anche le pratiche diffuse nel mondo islamico – la sottomissione incondizionata della donna all’uomo, la rinunzia ai propri più elementari diritti, fino al caso estremo dell’infibulazione – , a cui noi occidentali ci opponiamo denunciandole come oggettive violazioni della piena umanità della persona, dovrebbero essere considerate assolutamente “buone”, alla luce della diffusa accettazione che se ne registra – da parte delle donne stesse – in quegli ambienti. Siamo disposti ad accettarlo, o non propendiamo, piuttosto – giustamente – per mettere in discussione una “libertà” che ci appare fortemente condizionata dall’educazione e dal clima culturale?

Vogliamo sostenere che la nostra invece ne sia esente? O dobbiamo onestamente riconoscere l’influenza decisiva che le logiche del mercato capitalistico, il consumismo dilagante, il circo mediatico, esercitano su di noi e ci fanno credere di essere “liberi” nelle nostre scelte?

Non si tratta, ovviamente, di rinunziare a seguire la propria valutazione personale, ma di confrontarla incessantemente con una realtà umana che non si riduce alla nostra percezione immediata di essa e tanto meno ai luoghi comuni in circolazione, sforzandosi di scoprirne e di rispettarne la ricchezza.

Questo ci aiuterebbe a situare un problema come quello della violenza sulle donne nel contesto più ampio del significato della sessualità, consentendoci di esercitare un sano senso critico nei confronti del consumismo e del potere (non solo fisico) che oggi, al di là del caso degli stupri, lo distorcono.  

E di trasformare così una indignazione, che spesso si sviluppa prevedibilmente all’interno dei quadri del politically correct, nella ricerca veramente “rivoluzionaria” di una radicale alternativa all’esistente.

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