Il falso bersaglio del progetto sull’educazione sentimentale

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Un progetto educativo ambizioso

È il caso di fermarsi a riflettere sulla portata e il significato del progetto presentato dal ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, col titolo “Educare alle relazioni”, – sulla stampa lo si è chiamato anche «educazione sentimentale» -,  che dovrebbe essere avviato nelle nostre scuole superiori già dal prossimo gennaio o febbraio.

Se non altro, perché esso pretende di essere una significativa innovazione nel nostro sistema d’istruzione e mira ad incidere sulla formazione delle nuove generazioni.

Frutto, una volta tanto, di una istanza condivisa da governo e opposizione, sull’onda dell’indignazione e dell’orrore che la brutale uccisione di Giulia Cecchettin ha suscitato nell’opinione pubblica, l’iniziativa ha sicuramente il merito di prendere in considerazione – oltre alle misure di ordine pubblico per prevenire la violenza sulle donne – la questione di fondo, che è quella educativa.  

Da qui l’idea di proporre per la nostra scuola «un piano necessario e innovativo» – come lo definisce Paola Frassinetti, sottosegretario all’Istruzione e al Merito –  attraverso cui «i docenti dovranno soprattutto far capire ai bambini e ai ragazzi che nessuno può togliere la libertà ad altri e che amare significa rispettare».

Illustrandone in concreto le modalità, Valditara ha spiegato che «il progetto parte in via sperimentale dalle scuole superiori, si articola con dei gruppi di discussione e il coinvolgimento degli studenti, invitati a prendere consapevolezza dei propri atteggiamenti e rappresentazioni e della possibilità di modificarli».

Senza trascurare l’aspetto giuridico: «Gli studenti saranno anche edotti delle conseguenze penali che comportamenti impropri possono generale».  

Per quanto riguarda i tempi il ministro ha precisato: «Iniziamo subito con 30 ore che saranno svolte a livello extracurricolare».  In pratica, un’ora a settimana, il pomeriggio, per tre mesi all’anno e un totale di dodici sessioni di due ore e mezzo l’una. La partecipazione dei ragazzi e delle ragazze sarà facoltativa. «Se l’esperimento funzionerà» – ha aggiunto, «dal prossimo anno scolastico lo renderemo obbligatorio», estendendolo anche agli altri ordini di studi.

Altri particolari organizzativi: ogni gruppo sarà moderato da un insegnante, che per questo verrà retribuito; ogni scuola nominerà un docente referente, per garantire una gestione coordinata ed efficace. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito, in collaborazione con enti scientifici e professionali, predisporrà un programma di formazione per assicurare che ogni moderatore sia adeguatamente preparato a guidare i dibattiti e le discussioni.

La proposta prevede inoltre che possano intervenire degli psicologi, ma anche influencer, cantanti e attori, per facilitare il dialogo con i giovani.

Le critiche e le polemiche

In realtà fin dalla sua presentazione ufficiale, l’iniziativa è andata incontro a un’ondata di critiche, sia di esperti che di rappresentati del mondo della cultura, concordi nel giudicarla inadeguata.

Tutti hanno evidenziato che i docenti delle discipline curricolari – per quanto possano giovarsi di appositi corsi di formazione – non hanno le competenze specialistiche necessarie per condurre adeguatamente il confronto nei gruppi. Le avrebbero, invece, psicologi, psicoterapeuti e sessuologi, la cui presenza, però, è prevista solo come eventuale.

Certo, si è osservato, parlare dei problemi può aiutare, ma dipende da come se ne parla. Ce n’è uno, che caratterizza  gli scambi sui social o le conversazioni  al bar, assolutamente inutile ai fini di un reale approfondimento e di un coinvolgimento personale da parte dei  partecipanti.  Ed è quello che, in mancanza di sistematici apporti qualificati, purtroppo rischia di prevalere nei gruppi di discussione previsti dal progetto.

Per contro, è stato notato che l’apporto dei giuristi rischia di essere superfluo. I femminicidi non avvengono perché qualcuno non è al corrente dell’entità delle pene a cui va incontro!

In ogni caso, si è sottolineato, 30 ore non bastano per non dire che, essendo la partecipazione facoltativa, molti dei destinatari non parteciperanno. Anche se quest’ultimo rilievo, come quello che riguarda la limitazione dell’esperimento alle scuole superiori, sembrerebbe superata dalla promessa che, in caso di successo, il progetto verrà reso obbligatorio ed esteso a tutte le classi.

A queste critiche “tecniche” si sono aggiunte quelle – bipartisan – della politica, scatenate, o almeno alimentate, dalla scelta del ministro di nominare fra le “garanti” del progetto Paola Concia, nota attivista lesbica e femminista, con quelle di una religiosa e di una ex candidata per il Popolo della famiglia.

Una ipotesi che ha fatto insorgere la destra e che non ha entusiasmato affatto la sinistra (la Concia è un’oppositrice della maternità surrogata). Il ministro ha dovuto prendere atto di questa generale levata di scudi generale e rinunziare – se non al progetto, che andrà avanti – alla figura delle garanti.  

Una battaglia di retroguardia

Di fronte a questo quadro, una prima considerazione  riguarda, più che il progetto, il clima in cui è maturato, che è quello della lotta contro la cultura del patriarcato, in base alla premessa, data per certa da tutti, che essa sia la causa delle violenze contro il genere femminile.

Ora, che ci siano gli strascichi di una cultura maschilista del passato  che   ancora penalizza, talvolta pesantemente, le donne, è evidente. Ma che sia essa a spiegare i femminicidi sembrerebbe già smentito dal fatto che, secondo le statistiche, questo triste fenomeno è assai più diffuso che in Italia in società che difficilmente possono essere definite patriarcali, come la Germania, l’Olanda e la Francia, e ha una diffusione di poco inferiore che da noi in Svezia.

Se poi si va a un’analisi dei fatti di cronaca, si deve constatare che nella grande maggioranza dei casi gli uomini che uccidono le donne lo fanno perché  se ne sentono abbandonati e/o superati, come del resto è stato nel caso di Filippo Turetta.

La violenza nasce dunque, se mai, da una dissoluzione della cultura del patriarcato, dalla frustrazione di chi ne sperimenta il tramonto  dopo il grande processo di emancipazione che sta fortunatamente coinvolgendo, almeno nei paesi occidentali, le nuove generazioni di  donne.

Il femminicidio, allora, è un prodotto non della eccessiva forza del maschio, ma del suo smarrimento  di fronte a un mondo nuovo, che lo vede in crescente difficoltà di fronte a figure femminili sempre più autonome  e protagoniste.

Il vero problema che si pone oggi non è dunque quel residuo del passato che è il patriarcato, ma una  cultura che,  dopo essersi fortunatamente lasciata indietro il soffocante peso del familismo e del padre-padrone,  per una comprensibile ma non meno problematica reazione esalta in modo unilaterale l’individuo e la sua autonomia, inducendolo a considerare i rapporti con gli altri in funzione di se stesso e della propria auto-realizzazione.  

Esemplare il caso della famiglia, che da sistema (quello sì patriarcale) di relazioni che soffocavano il singolo si è dissolta fino a vedere ormai la prevalenza di single che stabiliscono rapporti escludendo ogni forma di legame vincolante («Stiamo insieme finché stiamo bene insieme»).

È in questa logica che anche il sesso è ormai praticato sganciandolo da una reciproca donazione personale – quello che un tempo si chiamava “amore” – e viene ormai considerato da molti come un appagamento delle pulsioni soggettive, da praticare senza problemi  anche al di  fuori di ogni impegno verso l’altro, spogliato della sua soggettività e ridotto a semplice oggetto di piacere.

Al contrario che nel patriarcato,  dominato da una logica perversa di responsabilità che  uccideva la libertà, oggi vediamo diffondersi una cultura della libertà che prescinde dalla responsabilità.

Una cultura che peraltro non riguarda solo i rapporti tra uomini e donne, ma pervade tutta la società neocapitalista. E forse proprio questo spiega perché ci sia così difficile riconoscerla e così facile prendercela, come è avvenuto in queste settimane, con un residuo del passato ormai al tramonto, evitando così di guardare in faccia un problema che in realtà portiamo dentro di noi.  

Un falso obiettivo educativo

A questo punto, però, il problema dell’educazione dei giovani non è quello di insegnare ai giovani maschi a rispettare la libertà delle ragazze e alle ragazze a far rispettare la  propria libertà (ammesso che questo si possa fare in 30 ore all’anno…), come il progetto del Ministero prevede, ma di ripensare  alla radice che cosa si intende con questo termine.

Smascherando quello che uno studio ha chiamato l’«individualismo possessivo», dominante nella nostra società a tutti i livelli (economico, sociale, politico. . . ), ristabilendo il legame tra libertà e responsabilità e rivalutando anche il concetto di amore come donazione di sé all’altro, piuttosto che come fruizione emotiva e sessuale della sua persona.  

Ma per questo non sono neppure adeguati gli apporti degli psicologi e dei sessuologi di cui si lamenta la mancanza.

Anzi, la pretesa di risolvere la questione dell’educazione affettiva e sessuale separandola da un più ampio contesto valoriale, che le dia senso e fornisca dei criteri per le scelte,  è frutto di una cultura  centrata sul problema dei mezzi, ma incapace di affrontare quello dei fini.

Per quanto importante sia la consulenza di esperti sui problemi psichci, nessuno può pensare di affidare a uno psicoterapeuta  l’educazione al senso della propria vita, da cui dipende quello che si dà al rapporto con gli altri.

In realtà, più che un nuovo insegnamento con cui caricare la nostra scuola,  già troppo affollata, servirebbe una sua riqualificazione in senso educativo. Da troppo tempo essa si limita a fornire (quando ci riesce) competenze. L’educazione è un’altra cosa.

Solo che lo sforzo di riscoprirla nel nostro sistema d’istruzione  richiederebbe un impegno collettivo – non solo della scuola, ma di tutta la società – per tentare di recuperare un orizzonte valoriale condiviso perduto da tempo e indispensabile per educare.  

È da questa crisi dei fini e del senso, in realtà, che nasce la violenza, e non solo quella verso le donne.   Ma di questo vuoto, che ci portiamo dentro e che comunichiamo ai nostri giovani, nessuno vuole parlare. È più facile fare i gruppi di discussione proposti dal ministro per continuare la lotta, tutti d’accordo, contro la cultura del patriarcato.  

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