La questione palestinese e la censura della memoria

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Antisemitismo e antisionismo

Mentre a Gaza la crisi umanitaria raggiunge il suo culmine – tanto da spingere il segretario generale dell’ONU Guterres a invocare per la prima volta l’art.99 della Carta delle Nazioni Unite per convocare d’urgenza il Consiglio di sicurezza, per chiedere l’immediato “cessate il fuoco” – si è svolta a Roma la manifestazione organizzata dalla comunità ebraica romana e dall’Unione delle comunità ebraiche italiane contro l’antisemitismo.

L’evento non ha avuto una grandissima adesione di folla – erano circa tremila persone – , ma in compenso ha visto la partecipazione compatta di tutte le rappresentanze politiche, tranne Alleanza Verdi e Sinistra. In prima fila il governo: dopo il presidente del Senato La Russa sono intervenuti i vicepremier Salvini e Tajani; poi Nordio, Valditara, Sangiuliano e Roccella. Ma c’erano anche Elly Schlein e Conte, Calenda ed Elena Maria Boschi.  

L’obiettivo dichiarato era la denuncia del rinascere dell’antisemitismo, dopo il massacro del 7 ottobre perpetrato da Hamas. Un massacro, ha denunciato Victor Fadlun, presidente della Comunità Ebraica di Roma, che «è stato presto rimosso da gran parte della pubblica opinione».  

In realtà, con la sola eccezione di Conte (che non ha parlato dal palco), la manifestazione è stata caratterizzata dalla identificazione dell’antisemitismo con le massicce proteste che in tutto il mondo occidentale hanno visto le piazze e le università mobilitate contro la guerra condotta dallo Stato ebraico nella Striscia di Gaza e contro i governi (tra cui quello italiano) che, più o meno esplicitamente, la sostengono.

Così Ignazio La Russa, accolto dagli applausi, ha detto: «Basta distinguere antiebraismo e antisionismo. È un giochino. Io non ho ancora visto antisionismo che poi non finisca per essere contro gli ebrei. Le due cose stanno insieme».

«Io sto con Israele e con gli ebrei, lunga vita a Israele», ha urlato Salvini per dieci volte. Anche quando, di passaggio, si è accennato al costo di vite umane innocenti che essa sta comportando, questo è stato interamente addebitato all’aggressione da parte di Hamas.

Come ha detto il nostro vice-premier e ministro degli Esteri Antonio Tajani: «Il gruppo terroristico è responsabile di tutto ciò che accade in Medio Oriente». «Si dice che Israele ha il diritto di difendersi, ma lo si attacca quando lo fa», ha sottolineato Carlo Calenda.

Le proteste contro Israele sono state attribuite da Calenda al fatto che esso rappresenta ancora i valori che noi stiamo dimenticando: «L’odio per Israele è l’odio che l’Occidente ha per sé stesso, per la libertà, l’uguaglianza e i diritti umani». Non è stato il solo a sposare così, senza riserve, la  tesi del premier israeliano Netaniahu, secondo cui in questa guerra sono in gioco non solo le sorti di Israele, ma quella della nostra civiltà e della democrazia.

Contro l’ “equidistanza” di papa Francesco

Non è mancata una critica alla posizione della Chiesa cattolica. Nel suo intervento la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Italiane, Noemi Di Segni si è rivolta a papa Francesco chiedendogli di non mettere tutti sullo stesso piano», perché «l’equidistanza e l’equivicinanza non aiutano a cogliere il vero problema». 

Riprendendo così la dura nota in cui il Consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia accusava Bergoglio di aver fatto seguire al suo incontro con i parenti degli ostaggi rapiti da Hamas quello con i parenti di palestinesi prigionieri in Israele e di avere «pubblicamente accusato entrambe le parti di terrorismo». Col risultato che, «in nome di una supposta imparzialità, si mettono sullo stesso piano aggressore e aggredito».

L’interrogativo posto a questo punto dai rabbini era: a che cosa sono serviti «decenni di dialogo ebraico-cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella realtà, quando c’è chi prova a sterminare gli ebrei invece di ricevere espressioni di vicinanza e comprensione la risposta è quella delle acrobazie diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è distanza ma non è equa»?

Insomma, secondo i rabbini italiani, il dialogo religioso  tra cristiani ed ebrei non è autentico se, in una contingenza come questa, non porta a una convergenza sulla politica – e in concreto sulla  guerra – condotta dallo Stato di Israele…  Ancora una volta,  il problema è la distinzione o meno tra ebraismo e sionismo.

Ma ebraismo non è sionismo

Che dire di questa impostazione? Si può sicuramente comprendere lo stato d’animo dei rappresentanti delle comunità ebraiche, a due mesi da una spaventosa strage che ha visto massacrati o presi in ostaggio centinaia di innocenti.

E tuttavia questa coincidenza tra il popolo ebreo e lo Stato d’Israele è semplicemente falsa. L’identità e la storia del primo sono culturali e religiose e in esse affonda le sue radici anche il cristianesimo, a cui tutta la nostra civiltà si è ispirata.

Gesù, non lo dimentichiamo, era ebreo, come del resto la Madonna e gli apostoli. E san Paolo sottolinea che la predilezione divina non potrà mai essere annullata. Anche se, paradossalmente, a dimenticarsi di questo sono state per secoli le società cristiane, con i loro pogrom e i loro ghetti.

Il sionismo, invece, è un’ideologia laica, sorta alla fine dell’Ottocento e a cui non tutti gli ebrei hanno aderito (alle attuali proteste contro Israele partecipano anche molti di loro), che mirava a far nascere una istituzione statale ebraica su un territorio – la Palestina – che da quasi duemila anni era abitato da arabi.

Un progetto all’inizio tradottosi nel trasferimento di piccoli gruppi di ebrei, ma che sempre più ha trovato credito presso i governi occidentali, a partire dalla dichiarazione del ministro degli Esteri inglese, lord Balfour, alla fine della prima guerra mondiale, nel 1917, che aprì le porte della Palestina a una immigrazione sempre più consistente, anche se ancora largamente minoritaria rispetto alla popolazione araba.

Decisive sono state, alla fine della seconda guerra mondiale, dopo la tragedia della Shoah, da un lato la convinzione di molti dei superstiti che il solo modo di evitare il ripetersi delle persecuzioni antisemite fosse la nascita di uno Stato ebraico, dall’altro l’esigenza dei vincitori di offrire alle vittime  un “indennizzo” per la spaventosa violenza che avevano subìto.

Da qui un intensificarsi della migrazione di ebrei in Palestina. Da qui il problema della coesistenza conflittuale di due popoli – molto diversi, visto che gli ebrei sionisti erano per lo più europei o americani – su una sola terra. E la resistenza degli abitanti – perché il dato da cui sempre si prescinde è che questa terra era la loro – a fare posto a quelli che apparivano ai loro occhi degli intrusi.

Malgrado le loro resistenze, il 29 novembre 1947, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la risoluzione 181 II, che prevedeva la creazione di uno stato arabo e di uno ebraico nei territori dell’ex Mandato britannico della Palestina. Il 14 maggio 1948 veniva proclamata la nascita dello Stato d’Israele.

Storia di una pulizia etnica

In realtà, come ha dimostrato – sulla base di una documentazione inoppugnabile a partire dagli archivi militari di Israele – lo storico israeliano Ilan Pappé, nel suo libro tradotto in 15 lingue La pulizia etnica della Palestina (da cui traggo le citazioni che seguono), fin dal marzo 1948 l’Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista, guidata da Davide Ben Gurion – che rimane per gli israeliani “il padre della patria” – aveva programmato e avviato un programma di sistematica espulsione dei residenti palestinesi. La sua finalità era espressa nelle parole: «I palestinesi devono andarsene». A monte, c’era la «determinazione ideologica sionista ad avere un’esclusiva presenza ebraica in Palestina».

I metodi erano minuziosamente predeterminati: «Intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno».

«Ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti».

«Questa vicenda» osserva Pappé – «è stata da allora sistematicamente negata». «La storiografia israeliana parlava di “trasferimento volontario”». Una tesi che gli studi degli storici revisionisti israeliani della cosiddetta “nuova storia”, sorta negli anni Ottanta, «utilizzando principalmente gli archivi militari israeliani», hanno dimostrato «falsa e assurda», rivelando «che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità». Vi rientrano anche «la contaminazione dell’acquedotto di Acri con microbi del tifo, numerosi casi di stupri e decine di massacri».

Oggi il governo israeliano e i suoi sostenitori insistono univocamente sull’aggressione che hanno subìto il 7 ottobre, come se prima di quella non fosse concesso guardare, e il ministro degli esteri di Tel Aviv Cohen si è infuriato quando il segretario generale dell’ONU Guterres, pur condannandoli duramente, ha notato che «gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla.

Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite».

La risposta di Cohen è stata la richiesta di dimissioni di Guterres, unita all’affermazione che l’ONU «non avrà motivo di esistere» se le nazioni che la compongono «non si schiereranno dalla parte di Israele»  e alla decisione  di «dargli una lezione», negando il visto di entrata ai suoi rappresentanti.

In realtà è ancora il libro di Pappé a dirci che, ben  prima della strage del 7 ottobre (che resta assolutamente ingiustificabile e disumana), all’inizio di tutto, gli aggrediti furono  proprio i palestinesi. Scrive Pappé: «Davide Ben Gurion, nel suo libro Rebirth and Destiny of Israel, p.530, notava candidamente che: “Fino alla partenza degli inglesi il 15 maggio 1948 nessun insediamento ebraico, anche remoto, era stato attaccato o occupato dagli arabi, mentre l’Haganà aveva conquistato molte posizioni arabe e liberato Tiberiade, Haifa, Giaff e Safad (…). Così, nel giorno del destino, quella parte della Palestina dove l’Haganà poteva operare era quasi ripulita dagli arabi”».

La verità – sottolinea lo storico (il quale, ripeto, è un ebreo e un autorevole studioso, che oggi insegna nell’università di Exeter, nel Regno Unito) – è che sin dall’inizio gli israeliani si sono mossi nella logica della pulizia etnica, e ancora questa pulizia, con il moltiplicarsi degli insediamenti in Cisgiordania, «è attualmente in corso». Dove va sottolineato che la pulizia etnica non va confusa col genocidio, perché  non mira a eliminare fisicamente, ma a espellere il popolo nei cui confronti opera.

«È davvero difficile capire e quindi anche spiegare, perché un crimine, perpetrato in tempi moderni (…) sia stato ignorato così totalmente», osserva Pappé. Purtroppo, guardando l’atteggiamento dei governi occidentali e quello della grande maggioranza della stampa, si capisce che questa censura della memoria di ciò che è effettivamente accaduto – e che è all’origine dei drammi attuali – è ancora operante.

Non si può accettare l’idea di Hamas o dell’Iran che Israele non abbia il diritto di esistere. Ma neppure si può riconoscere al suo governo il diritto di imporre al mondo una versione ideologica della questione palestinese, accusando l’ONU e il papa di essere amici di Hamas.

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