Il caso Ghali
Il comunicato dell’amministratore delegato della Rai, Roberto Sergio, letto durante la trasmissione di “Domenica In” dalla conduttrice Mara Venier, ha ulteriormente ravvivato, invece di spegnerle, le polemiche suscitate dalle parole di Ghali dal palco di Sanremo: «Stop al genocidio».
L’appello, come testimoniano le migliaia di messaggi che gli avevano fatto eco sui social, era stato interpretato da moltissimi italiani come una invocazione di pace. Non l’ha inteso in questo modo l’ambasciatore israeliano in Italia, Alon Bar, che su X ha scritto: «Ritengo vergognoso che il palco del Festival di Sanremo sia stato sfruttato per diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile.
Nella strage del 7 ottobre, tra le 1200 vittime, c’erano oltre 360 giovani trucidati e violentati nel corso del Nova Music Festival. Altri 40 di loro, sono stati rapiti e si trovano ancora nelle mani dei terroristi. Il Festival di Sanremo avrebbe potuto esprimere loro solidarietà. È un peccato che questo non sia accaduto».
Ma già il testo della canzone di Ghali aveva suscitato reazioni da parte del presidente della comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi. Lo aveva indignato soprattutto un passaggio: «Ma come fate a dire che qui tutto è normale/ Per tracciare un confine/ Con linee immaginarie bombardate un ospedale/ Per un pezzo di terra o per un pezzo di pane/ Non c’è mai pace».
«A differenza di Ghali non possiamo dimenticare che questa terribile guerra è il prodotto di quanto successo il 7 ottobre (…). E ci chiediamo, dove sono i vertici Rai?», aveva detto Meghnagi dopo la prima esibizione del cantante.
Da qui l’intervento di Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato e componente della commissione di Vigilanza sulla Rai: «La Rai deve chiedere scusa ed esprimere solidarietà al popolo di Israele».
Si noti che in queste reazioni negative non si contesta – come invece da parte di alcuni si è fatto – l’irrompere della politica in una manifestazione canora qual è Sanremo, bensì l’orientamento espresso dal cantante. Anzi, da parte dell’ambasciatore israeliano, si recrimina esplicitamente che nel festival non ci sia stata una presa di posizione di segno opposto, a favore degli ostaggi invece che del popolo palestinese.
A questo, secondo Gasparri la Rai doveva rimediare. E lo ha fatto, facendo leggere alla Venier, durante una trasmissione anch’essa destinata all’intrattenimento e non alla politica, un testo in cui si ribadiva l’attenzione della rete televisiva per «la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas» e per «la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre», senza fare alcun cenno alle sofferenze della gente di Gaza e all’urgenza di un “cessate il fuoco” che le interrompa.
La solidarietà del governo italiano e il “silenzio” internazionale
È questa, del resto, la linea del nostro governo. È significativo che nella mozione presentata in questi giorni in Parlamento dai partiti di destra – proprio mentre l’offensiva israeliana contro Rafah fa temere una strage di innocenti civili – ci si limiti a chiedere che «si riavvii un processo di pace credibile fondato sulla coesistenza di due Stati sovrani (…) assicurando che tutti gli ostaggi siano rilasciati immediatamente e incondizionatamente e che l’organizzazione terroristica Hamas non costituisca più una minaccia esistenziale per Israele».
Una posizione che la stessa maggioranza, davanti al moltiplicarsi, a livello internazionale, delle richieste di fermare la guerra, non si è sentita di sostenere in aula, astenendosi sulla propria mozione e lasciando, così, che passasse quella del PD, dove si chiede almeno un “cessate il fuoco”.
Peraltro solo di recente anche l’opposizione – come del resto la grande maggioranza dei mezzi di informazione italiani – ha cominciato a mostrare delle perplessità sulla reazione israeliana , per mesi giustificata senza riserve dai politici e dai più autorevoli editorialisti. Non a caso ancora poco tempo fa Victor Fadlun, presidente della Comunità ebraica di Roma, poteva ringraziare pubblicamente «le istituzioni e le forze politiche italiane che unanimi hanno sostenuto e rappresentato la loro solidarietà ad Israele in questo momento tremendo».
Una solidarietà, secondo la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, assente invece, a livello internazionale, da parte di tanti che avrebbero cercato di far calare sulle atrocità del 7 ottobre il silenzio.
«Silenzio dell’ONU (…). Silenzio della Croce Rossa (…). Silenzio di tutte le ONG di difesa dei diritti umani. In parallelo al silenzio assordante, ci sono gli slogan urlati da chi difende in modo superficiale e demagogico il popolo palestinese e attacca gli interventi di difesa dell’esercito israeliano».
Gravissimo! – verrebbe spontaneo esclamare davanti a questa denuncia. Senonché, basta leggere le dichiarazioni del segretario generale dell’ONU, Guterres – il primo ad essere stato accusato di quel silenzio -, così come quelle di tutti gli enti e le associazioni sopra menzionati, per constatare, con sorpresa, che in tutti la condanna della bestiale violenza consumata da Hamas contro civili innocenti è chiaramente espressa. In molti casi – per esempio nella presa di posizione di Guterres – insieme alla richiesta della liberazione degli ostaggi.
E allora? Il punto è che, secondo questa narrazione dei fatti, costituisce un misconoscimento del 7 ottobre – anzi, secondo le parole dell’ambasciatore israeliano, sarebbe un modo per «diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile» – ogni critica all’operato dell’esercito israeliano che, per riportare le parole della Di Segni, in questa guerra «agisce secondo morale e non si è sottratto alle norme internazionali».
La stessa accusa vale – come dimostra la reazione alle parole di Ghali – nei confronti di chiunque invochi una pace che fermi quella che, da parte di Israele e dei rappresentanti delle comunità ebraiche, viene difesa come una «guerra giusta».
Questo spiega perché non si trovi in nessuna loro dichiarazione una condanna delle violenze sui civili palestinesi. Anzi, in esse, si rifiuta esplicitamente di mettere sullo stesso piano le 1.200 vittime dell’attacco di Hamas e le 28.000 dei bombardamenti su Gaza. Come è stato contestato anche a papa Francesco, in una dura nota del Consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, dove si diceva che nei discorsi del pontefice contro le violenze di entrambe le parti, «in nome di una supposta imparzialità, si mettono sullo stesso piano aggressore e aggredito».
Antisemitismo?
Sullo sfondo, evidentemente, c’è l’ombra dell’antisemitismo, esplicitamente chiamato in causa dai difensori di Israele. Smentiti, però, dalla presa posizione di molti ebrei, fortemente critici nei confronti dell’operato dello Stato ebraico.
Già alla fine di novembre, negli Stati Uniti, mille intellettuali ebrei – registi, scrittori, artisti, professionisti e docenti universitari – ne avevano chiaramente preso le distanze. E proprio in questi giorni un gruppo di intellettuali ebrei italiani, in una lettera, hanno scritto: «I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire».
E hanno denunciato la tendenza a confondere le critiche alo Stato ebraico con l’antisemitismo: «Non siamo d’accordo con le indicazioni che l’Unione delle Comunità ebraiche italiane ha diffuso per la giornata del 27 gennaio [Giorno della Memoria], in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene che cosa sia l’antisemitismo e non ne tolleriamo l’uso strumentale».
Anche a livello politico la linea di Tel Aviv viene ormai contestata perfino dai suoi sostenitori tradizionali, gli Stati Uniti, che a lungo hanno cercato di difenderla: «Gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre», ha detto il segretario di Stato americano Anthony Blinken in una conferenza stampa a Tel Aviv, «ma questa non può essere una licenza per disumanizzare gli altri».
Sottolineando che «la stragrande maggioranza delle persone a Gaza non ha nulla a che fare con gli attacchi del 7 ottobre». Si noti, di assaggio, che Blinken è ebreo.
Un riscontro a questa denuncia viene dall’alto rappresentante dell’Unione Europa per gli Affari esteri, Joseph Borrell: «La situazione umanitaria a Gaza non potrebbe essere peggiore, non c’è cibo, medicine e le persone sono sotto le bombe (…). Non è il modo di condurre un’operazione militare, e lo dico nel rispetto delle vittime del 7 ottobre».
A confermare queste perplessità è arrivata, il 26 gennaio scorso, la sentenza con cui il Tribunale penale internazionale dell’Aia, pur senza volersi pronunziare definitivamente, ha ritenuto di non poter escludere che quanto sta accadendo a Gaza configuri l’ipotesi di un vero proprio genocidio.
Si può legittimare ogni comportamento di chi è aggredito?
A giustificare ciò che l’esercito israeliano sta facendo a Gaza, come abbiamo visto, è il mantra continuamente ripetuto: non si possono mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti.
Tutto ciò che questi ultimi fanno – anche se fonte di gravi conseguenze per i civili – va attribuito alla responsabilità di chi li ha brutalmente assaliti.
Ma è veramente così? Per rendersi conto della fallacia di questo teorema basta pensare che, se esso fosse vero, non avrebbe senso la condanna – celebrata recentemente nel “giorno del ricordo”, alla presenza della Meloni – dei terribili massacri di italiani, compiutisi in Istria a cavallo tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio del dopoguerra, dai partigiani jugoslavi.
Perché in quel caso siamo stati noi gli aggressori, invadendo, il 6 aprile 1941, a fianco dei tedeschi, il regno jugoslavo e occupando militarmente quel territorio dal 1941 al 1943. Una occupazione durante la quale le nostre truppe si lasciarono andare ad ogni sorta di violenza, commettendo dei veri propri eccidi.
La controffensiva della resistenza jugoslava si ispirò allo stesso risentimento che in questi mesi ha ispirato le truppe israeliane e portò agli stessi eccessi, sia prima che dopo la fine ufficiale della guerra. Si calcola che circa diecimila italiani siano stati massacrati, nelle foibe, nei campi di concentramento, nelle loro case.
A questo eccidio seguì l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia, dal Quarnaro e dalla Dalmazia – anche in questo caso in analogia con la sistematica espulsione dei palestinesi dalle loro terre (vedi i documentatissimi studi dello storico israeliano Pappè) – nella logica di una spietata “pulizia etnica”.
Vogliamo abolire questo “giorno del ricordo”, che, dopo un lungo e inaccettabile silenzio, ha rinnovato la memoria e l’indignazione per questi morti innocenti, solo perché ad aggredire e invadere la Jugoslavia fu lo Stato fascista italiano? Probabilmente nessuno si sentirebbe di rispondere di sì.
Ma, se si risponde di no, prepariamoci a celebrarne un altro, di “giorno del ricordo”, quando questa guerra sarà finita, per non dimenticare gli innocenti che in questi mesi sono stati uccisi, a decine di migliaia, sotto i nostri occhi complici.
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