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I giovani e la politica: in dialogo con Diego Fusaro

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fusaro2I giovani e la politica: un binomio difficile in un tempo segnato pesantemente dalla sfiducia nelle istituzioni e nel loro ruolo, sfiducia che spesso si traduce per le nuove generazioni, in perdita di significato, ripiegamento su se stessi e mancanza di futuro. Questo il tema della conferenza di Diego Fusaro che giorno 29 maggio 2017 si è tenuta a Palermo, a Villa Lampedusa. Diego Fusaro, docente di Filosofia e direttore scientifico dello IASSP (Istituto di alti studi strategici e politici), è autore di numerosi saggi di successo nazionale ed internazionale. Tra questi ricordiamo, “Bentornato Marx”, “Il futuro è nostro”, “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo” editi da Bompiani e Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo, Feltrinelli, 2015. Il suo ultimo saggio Pensare altrimenti, Giulio Einaudi 2017, in pochi mesi è giunto alla quarta ristampa. Recentemente ha fondato l’Associazione culturale e la rivista “Interesse nazionale”, con lo scopo di ragionare criticamente nel tempo della crisi globale, a distanza tanto dal nazionalismo quanto dal mondialismo e avendo come modello di ispirazione le scuole filosofiche dell’antichità. Lo abbiamo intervistato a Palermo, con l’intento di far pervenire il suo messaggio filosofico-politico anche a coloro che non erano presenti.

 Chi sono i giovani di oggi?

Il giovane è colui che non è ancora stabile, colui la cui stabilizzazione deve ancora avvenire. Oggi siamo tutti perennemente giovani, o per lo meno, questo è cioè che il sistema in ogni modo vuole farci credere, attraverso l’imposizione del nuovo modello dell’eternamente giovane e attraverso l’elogio costante del giovanilismo come stile di vita. Gli anziani stessi sono indotti a comportarsi come se fossero perennemente giovani, assumendo mode giovani e vestendo secondo il lifestyle giovanile. È come se si fosse deciso di abbandonare l’idea stessa di maturità.

Cosa intende per maturità?

La maturità coincide con l’eticizzazione dell’individuo, ossia con la stabilizzazione della vita etica, la quale può avvenire solo in quanto l’individuo è parte integrante di forme stabili di vita associata. La maturità è la fase in cui l’individuo si stabilizza sentimentalmente. La famiglia rappresenta il luogo della stabilizzazione del sentimento e dunque dell’eticizzazione. Oggi tutte le forme che in passato avevano garantito sicurezza e stabilità, la scuola, la sanità, il posto fisso di lavoro, lo Stato sovrano nazionale – luogo della cittadinanza stabilizzata – stanno letteralmente disgregandosi. La vita familiare sta disgregandosi – complice il processo di individualizzazione integrale della vita –  e pertanto i giovani non hanno più la possibilità di essere inquadrati in un’etica familiare. La scuola, d’altro canto, viene sempre più delegittimata del ruolo educativo, in funzione di una sua progressiva aziendalizzazione. Ai giovani sono venuti meno dunque i due punti di riferimento principali del processo educativo, in grado di fornire modelli da interiorizzare.

Cosa sta determinando secondo lei questa crisi culturale dei modelli educativi?

Oggi viviamo quella che io definisco l’“epoca dell’accumulazione flessibile del capitale”, in cui tutto ruota attorno alle esigenze della produzione, in funzione della quale si tende a flessibilizzare l’intero mondo della vita etica. Il capitalismo mondiale, infatti, mira a rimuovere tutte le forme stabili dell’eticità e proprio al fine di sostenere un sistema di bisogni de-eticizzati indotti, promuove il nuovo profilo dell’individuo eternamente giovane, eternamente migrante, eternamente destabilizzato.

A cosa si riferisce quando parla di eticità?

Quando parlo di eticità, mi riferisco essenzialmente alla definizione che ne dà Hegel, nei Lineamenti di Filosofia del diritto, ossia mi riferisco ad un’etica comunitaria basata su rapporti solidali, duraturi, stabili, centrati non sulla figura dell’individuo isolato, bensì sulla comunità solidale. Per Hegel il momento fondativo dell’eticità è la famiglia, intesa come comunità originaria e come il luogo primo della stabilità e dunque delle radici etiche. Senza stabilità non è pensabile, infatti, alcuna forma di etica solidale. In seno alla famiglia l’amore trova la sua maturità e si realizza quello che io definisco “l’accasamento”, con un valore sia reale che simbolico. La distruzione dell’oìkos, infatti, non è solo rinuncia a una fissa dimora in cui ci si stabilizza, è anche rinuncia alla possibilità di fondare le radici stesse della nostra vita etica e spirituale. Alla comunità etica e solidale di Hegel si è sostituita pertanto la “società socievolmente insocievole” di Adam Smith, dove ciascuno si relaziona all’altro unicamente in funzione del proprio tornaconto personale.

Non le sembra però di forzare un po’ la mano e di ridurre tutto alla questione del capitalismo flessibile?

No affatto, perché il sistema del capitalismo flessibile è di per sé un immenso sistema globale di bisogni de-eticizzati. La de-eticizzazione del mondo della vita non accade a caso, ma è una determinazione immediata e lo scopo precipuo del capitalismo flessibile. I giovani sono le prime vittime di questo sistema. Infatti, proprio in quanto sono determinati all’impossibilità di ogni forma di stabilizzazione e dunque di eticità, viene cioè loro negata la possibilità di crescere e di maturare. Come il migrante, il giovane destabilizzato è il soggetto ideale del capitalismo flessibile, il consumatore ideale: egli infatti desiderando senza maturità, è capace di consumare e di godere illimitatamente. La Erasmus generation è formata proprio in vista di quella mobility, intesa come propedeutica tesa a favorire quella che io chiamo “deterritorializzazione”.

In che rapporto stanno comunità ed eticità?

Possiamo dire che vita etica e vita comunitaria vengono a coincidere. Hegel dice che quando un individuo cresce e lascia la sua famiglia, entra a far parte di una famiglia universale, ovvero di una società della quale ogni individuo, in quanto membro organico, è titolare di doveri e di diritti. Contrariamente a quanto continua a ripetere la propaganda liberale, lo Stato etico non è lo Stato che viola la libertà degli individui, ma se mai è quello che realizza pienamente la libertà degli individui, impedendo che a prevalere sia la logica sradicante ed eticizzante del mercato.

Dopo il modello comunitario, quale forma di socialità oggi?

Oggi stiamo assistendo al prevalere di quella che io definisco “l’atomistica degli individui de-eticizzati”, ossia di individui senza identità, senza cultura, senza etica familiare, senza cittadinanza. La società liquida, di cui oggi si parla tanto, è anche lo spazio talassico in cui tutto scorre, in cui non si sta, ma si transita. Giovani, migranti e precari hanno in comune il fatto che sono tutti disoccupati, non occupano cioè un posto fisso, ma sono permanentemente mobili e flessibili in nome del dogma della libera circolazione delle merci e delle persone come merci. Persino il termine “movida”, tanto usato nel gergo giovanile, non è un termine neutro, in quanto racchiude in sé la possibilità di un godimento illimitato di monadi gaudenti e insieme di un movimento permanente e destabilizzante, che è poi lo stesso a cui ci costringe il capitale flessibile. I giovani sono così condannati a vivere un eterno presente, ad assecondare un moto perenne che, nelle forme più svariate, li porta a vivere una condizione di destabilizzazione permanente.

Cosa ne pensa del rapporto padre-figli di oggi?

Oggi si è rotto il patto generazionale. Non c’è più la figura del padre che rappresenta la legge e pone dei vincoli e che limita il desiderare. Il sistema dei bisogni de-eticizzato vuole figli senza padre, ossia senza colui che, incarnando la legge, è in grado di porre un limite al desiderio. Del resto, i padri stessi oggi sono spesso non sono altro che giovani desideranti. Un tempo il giovane era l’educando, in greco “pais”, parola che ha la stessa radice di paidéia e che dunque fa riferimento al rapporto educativo dialettico tra padre e figlio, fra docente e discente. Si tratta dello stesso concetto espresso da Giovanni Gentile, il quale nel suo Sommario di pedagogia, scriveva che “Docendo discitur”, ossia insegnando si impara.

Cosa ha determinato secondo lei l’allontanamento dei giovani dalla politica?

Nel tempo dell’eterno presente, del futuro desertificato, in cui giovani sono costretti a vivere nel puro presente immobile ed eternizzato, privi di aspettative e di speranze, è più che comprensibile che essi siano disincantati rispetto alla politica. La politica dovrebbe essere l’arte della mediazione tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, tra l’ideale e il reale, tra la filosofia e la storia e compito del politico dovrebbe essere quello di far sì che lo Stato reale si avvicini il più possibile allo Stato ideale. Per rilanciare la “passione politica” oggi occorrerebbe ripartire dalla decostruzione della mistica della necessità imperante, la quale ci ripete che il mondo non potrebbe essere altrimenti da come è; occorre ripartire da una riconsiderazione dell’essente come storia e come possibilità, per procedere poi verso una ricognizione critica del nostro presente. Oggi i giovani sono stati privati della grande galassia dei concetti chiave della politica che avevano animato e orientato le generazioni passate. Concetti cardine della politica come speranza, possibilità, cambiamento, rivoluzione, ribellione, speranza, prospettiva, non fanno più parte del nostro vocabolario.

Da filosofo come vede possibile oggi il rapporto tra la Filosofia e la politica?

L’opera in atto di destrutturazione della politica, a ben vedere, ha molto che fare con la funzione della Filosofia. Secondo Fichte, il compito proprio della politica, ossia quello della realizzazione dell’ideale, oggi è stato sostituito dalla nuova figura della idealizzazione del reale. Il reale stesso diviene così dover essere e la filosofia, confinata nei vari realismi, viene ridotta al trionfo dell’adattamento ai rapporti di forza. In questa situazione, si ha l’impossibilità della passione politica, la quale storicamente nasce nella misura in cui le fazioni politiche sanno rendersi portatrici di una loro filosofia. Come diceva Gramsci, infatti, la politica e i partiti sono sempre i modi attraverso cui si fa operativa una visione del mondo. Per Gramsci, così come per Gentile, vi era una circolarità completa tra filosofia e politica. La politica è infatti il tentativo di concretizzare gli ideali filosofici. Oggi i partiti politici non hanno visioni altre del mondo, non portano avanti un ideale rispetto al reale, ma semplicemente dicono in maniere diverse il reale stesso, idealizzandolo. I dibattiti tra politici, non distinguendosi per visioni del mondo agonali, danno luogo pertanto a quella che in “Il futuro è nostro” ho chiamato l’ “alternanza senza alternativa”.

Qual è la proposta di un filosofo per la politica odierna?

La proposta è quella d ripartire dalla Filosofia e dalla cultura in generale, perché la fine della paideia, della cultura, è anche la fine della capacità culturale di fare politica. Non può esserci un partito rivoluzionario, in assenza di una teoria rivoluzionaria atta a rendere rivoluzionario il partito. Occorre pertanto emanciparsi da una politica intesa come semplice amministrazione di ciò che c’è già, liberarsi dalla tecnicizzazione di una politica confinata alla sola gestione dell’esistente. Ripartire dalla cultura significa allora promuovere il tentativo di ricategorizzare, di rimappare la realtà, di ripensare i concetti chiave del nostro presente, pena continuare a vivere una politica che, come diceva Foucault, non governa il mercato, ma governa per il mercato.

Che consiglio darebbe ai giovani di oggi?

In un tempo in cui a prevalere sono quelle che, con sintagma spinoziano, io chiamo le passioni tristi – come il disincantamento, la rassegnazione, il terrore, la paura e la disperazione – la mia proposta ai giovani è quella di provare a ripartire dall’idea che tutto sia trasformabile e di ripensare la politica come arte regia della trasformazione e della riconciliazione tra reale e ideale. Ai giovani, portatori di futuro, consiglierei pertanto di andare a inseguire il fatalismo fin nel suo nascondiglio più remoto – come diceva Fichte – per scacciarlo, prima che si impossessi di loro e avveleni le loro coscienze. Consiglierei loro dunque di ripensare il presente come storia e possibilità e mai come un destino ineluttabile, per ridare vita alla possibilità di pensare e di essere altrimenti.

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