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Una società senza futuro?

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di Giuseppe Savagnone

 

I dati Istat, pubblicati qualche giorno fa, parlano chiaro: in Italia nel 2014 ci sono stati quasi 12.000 nati in meno rispetto al 2013. E il “movimento naturale della popolazione” – così viene denominato il rapporto numerico tra nascite e decessi – ha fatto registrare un saldo negativo di quasi 100.000 unità. Non succedeva dal biennio 1917-1918. Ma allora si era nel pieno della prima guerra mondiale, con tutto ciò che una guerra comporta!

Se ne ha un riscontro, del resto, incontrando per strada o nei locali pubblici le famigliole-tipo, formate da una coppia e, al massimo da un bambino o una bambina. In passato la regola erano le famiglie numerose. E non solo nei ceti più poveri.  L’imperatrice d’Austria Maria Teresa – peraltro grande figura di regnante del suo tempo – di figli ne ebbe sedici! E ancora all’inizio del Novecento era frequente che ce ne fossero una decina.  Oggi, invece, quando qualcuno rivela in pubblico di aspettare il terzo figlio, lo si guarda come si farebbe con un marziano: «Tre figli!». E si pensa tra sé: «Quello è matto!».

Ci sono, ovviamente, motivi di ordine oggettivo che spiegano questi cambiamenti. E qui il mio obiettivo non è di demonizzarli, ma di registrarli e, nei limiti del possibile, di capirli. È un fatto che molti, ormai, invece di fare figli, si prendono il cane. I vantaggi sono tanti. Primo fra tutti, il cane lo si può ordinare al negozio sapendo già, in base ai caratteri della razza, che tipo di animale sarà. I figli, invece, sono imprevedibili. A chi gli chiedeva perché non ne avesse mai voluti avere, Indro Montanelli rispondeva lapidariamente: «Perché uno non sa chi si mette in casa».

È vero. Tu ne vorresti uno con i tuoi gusti, i tuoi interessi, che magari continui a lavorare nell’azienda di famiglia con la stessa passione che hanno avuto tuo padre e tuo nonno e che ora hai tu, e invece viene fuori uno che ama suonare il sassofono e a cui parlare di bilanci fa venire il mal di testa. Vorresti che leggesse i giornali seguendo la politica con attenzione, e invece sta tutto il giorno sui videogiochi che tu trovi diseducativi. E allora, meglio il cane. Quello non può darti sorprese. E, in ogni caso, è meno impegnativo. Un figlio, una figlia che prende una strada sbagliata, ti rovina la vita. Un animale domestico è difficile che prenda strade sbagliate, e comunque l’impatto sulla famiglia è decisamente meno devastante.

Peraltro, al di là di queste motivazioni, ce ne sono altre di ordine economico:  la crisi del mercato del lavoro, col dilagare di una disoccupazione che colpisce soprattutto le fasce di lavoratori più giovani; la “flessibilità” – eufemismo per indicare la precarietà –  dell’occupazione, anche quando c’è; l’incertezza delle prospettive, che in entrambi i casi rende temeraria la scelta di sposarsi e ancor più temeraria quella di generare figli. Sono problemi oggettivi di cui. Per la verità, raramente si è fatta menzione, nelle prese di posizione della Chiesa, quando si è deprecato il declino della “famiglia fondata sul matrimonio” e della natalità. Una visione più lungimirante avrebbe messo in rapporto fin da subito questi diversi aspetti della realtà familiare e avrebbe consentito di battersi perché fossero garantite  non solo la peculiarità dell’unione coniugale, non solo la sua fecondità, ma anche le condizioni  socio-economiche dell’una e dell’altra.

Vi è, infine, un terzo livello di spiegazione, che si colloca in un orizzonte più vasto. Al di là delle specifiche insicurezze della situazione italiana, aleggia nel mondo occidentale una più oscura, inespressa angoscia del futuro, che spinge a ripiegarsi sul presente. Perché far nascere un figlio è comunque un atto di speranza, una sfida alle incognite che comunque gravano sull’avvenire. La nostra è una società che teme il futuro. Nell’età moderna si scrivevano opere inneggianti ad esso. Lo si rappresentava  nella forma di una società ideale, dove la giustizia e il benessere collettivo avrebbero finalmente trionfato. Scritti come Utopia, di Tommaso Moro, La città del sole, di Campanella, Nuova Atlantide, di Francesco Bacone, esprimevano questa immensa fiducia in un progresso irresistibilmente proteso verso il meglio.

Nell’età post-moderna, la nostra, questo ottimismo si è capovolto in un cupo pessimismo. I due più noti classici di fanta-politica del Novecento – 1984, di Orwell, e Il mondo nuovo, di Huxley – delineano scenari di radicale disumanizzazione. E basta dare una scorsa al contenuto dei film che provano oggi a descrivere  il futuro per avere la conferma di questa tendenza: il mondo è stato distrutto da una catastrofe  nucleare (The day after), o dalle macchine (Matrix; Terminator) o da un’epidemia spaventosa (L’esercito delle 12 scimmie). Sono solo degli esempi. E’ difficile trovare un solo film che pensi alla società di domani in termini positivi!

Perciò si preferisce esaltare l’attimo fuggente (v. film omonimo), il presente, rinunziando ai progetti e alla speranza. Insieme alla natalità, la vittima di questo atteggiamento è la politica. Non si fanno figli perché non si spera in un mondo migliore di quello in cui viviamo.

Eppure, in un altro film di qualche anno fa si metteva in bocca a una ragazzina la semplice osservazione che gli uomini, a differenza dei pesci, hanno gli occhi che guardano in avanti e perciò non possono fare  a meno di puntarli su ciò che li aspetta.  Abbiamo bisogno di fare progetti, di sognare un mondo diverso. Non siamo prigionieri di un oscuro fato. Ma il coraggio di sperare può nascere solo dal ritrovare un senso – come “significato” e al tempo stesso come “direzione” – al nostro cammino. Riscoprire delle mete che non siano solo quelle autoreferenziali e a breve termine a cui ci siamo assuefatti. E forse, con nostra sorpresa, proprio i nostri figli, se noi sapremo loro testimoniare che questo senso è ancora possibile, vorranno essere i costruttori di una società più umana di questa.

 

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