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Umanesimo senza Dio e trascendenza orizzontale: riflessioni a partire da Hilary Putnam e Massimo Recalcati

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di Alfio Marcello Briguglia

 

  

Nel documento consegnato alle chiese d’Italia per il decennio 2010-20, Educare alla vita buona del Vangelo, leggiamo, al n.5, tra i compiti affidati dal Maestro alla Chiesa c’è la cura del bene delle persone, nella prospettiva di un umanesimo integrale e trascendente.”

Cosa significhi integrale è spiegato nello stesso numero con riferimento alla formazione della intelligenza, della volontà, della capacità di amare e di lavorare, di cogliere l’autentica bellezza della vita.

Per quanto riguarda la trascendenza, è chiaro, nel documento dei vescovi, che un umanesimo trascendente si concepisce come dipendente da Altro, da un Altro, come dono ricevuto, come vocazione. Di fronte a questa consapevolezza la risposta più adeguata è la preghiera.

Sembrerebbe ovvio, per un credente, che l’apertura alla trascendenza comporti la fede in Dio.

Paradossalmente, però, si possono adoperare le stesse parole: dipendenza da Altro (con la A maiuscola), vocazione, dono, gratitudine … e si può pregare e insegnare a pregare, sospendendo il riferimento a Dio o addirittura negandone l’esistenza.

E’ quanto ci propongono due autori di formazione e provenienza molto diverse tra loro. Si tratta di Hilary Putnam, filosofo americano di formazione analitica, e dello psicanalista lacaniano Massimo Recalcati. Per semplicità, in queste brevi considerazioni, mi riferisco al volume di H. Putnam Corso di filosofia ebraica. Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein, pubblicato da Carocci, e ai due volumi di M. Recalcati: Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna e Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa, entrambi pubblicati da Raffaello Cortina.

H. Putnam è partito da posizioni decisamente materialiste, modificandole più volte, insoddisfatto per ciò che della vita rimaneva fuori dalla sua filosofia. E’ approdato ad una forma di realismo pragmatico, con riferimento esplicito a J. Dewey.

Come racconta lui stesso, a seguito del bar mitzwah del figlio, ha recuperato, qualche tempo fa, insieme alla moglie, le sue ascendenze ebraiche, ritornando a forme di vita nelle quali la preghiera occupa un posto quotidiano. Pregare, meditare, leggere i testi sacri, partecipare ai riti tramandati, ci dice, è diventato per lui stile di vita, modo di essere. E ci tiene a precisare che la sua pratica non deve essere confusa con la “meditazione trascendentale”. La sua è una vera pratica religiosa. “Mi rendevo conto che ciò che “il pregare” [davening] fa alla o nella nostra anima doveva essere molto differente da quel che fa la meditazione trascendentale; come che sia, la trovavo un’attività capace di trasformare le persone, e presto divenne una parte indispensabile delle “attività religiose” di cui parlavo sopra” (Putnam, p.13).

Al contempo H. Putnam dichiara di non credere in Dio, né nell’aldilà! O, perlomeno, non ancora! Vista la fluidità delle sue posizioni, la sua continua evoluzione intellettuale, la sua insoddisfazione per una filosofia troppo definita, essenzialista, platonica, sicura di sé (Putnam preferisce pensarsi come un aristotelico). “Forse mi sbaglio sulla natura di Dio”, ci dice, ma non è un errore così importante. Sarebbe molto più grave fallire sul modo di vivere e di sentire. Dopo tutto riferirsi a Dio “come una persona sommamente saggia, gentile, giusta … sono convinto … che sia in fondo di gran lunga più prezioso di qualsiasi concetto metafisico di un Dio impersonale” (ivi, p.109). Seguendo Buber, Putnam ci esorta a “non teorizzare su Dio in terza persona, ma di rivolgerci [in corsivo nel testo] a Dio” (ivi, p.110). Forzando un poco il testo, sembra che Putnam ci inviti ad intraprendere non un percorso intellettuale, ma un percorso “esperiente” verso Dio (ivi, p. 114).

M. Recalcati, dal canto suo, inizia la sua riflessione sulla evaporazione del padre con una domanda spiazzante: “E’ giusto insegnare ai nostri figli a pregare, se Dio è morto?”. La risposta dovrebbe essere negativa, se chi parla afferma di non credere in Dio, di condividere lo svuotamento del cielo annunciato da tante voci del Novecento.

 

Invece leggiamo: “Mi pongo questo problema come padre prima che come psicoanalista. Ma cosa significa pregare? Significa alimentare nei nostri figli l’illusione in un Dio che non esiste più, in un mondo dietro al mondo? Significa, come pensa una certa cultura del disincanto, alimentare un rituale superstizioso? Oppure insegnare a pregare è un modo per custodire l’evocazione di un Altro che non si può ridurre alla supponenza del nostro sapere, è un modo per preservare il non tutto, per educare all’insufficienza, all’apertura al mistero, all’incontro con l’impossibile da dire? Un mio caro collega non sopporta di sentirmi fare questi discorsi. E convinto che la psicoanalisi sia un abbandono senza ritorno di ogni forma di preghiera. Dio non risponde, il Padre tace, il ciclo sopra le nostre teste, come ripete Sartre, è vuoto.

Anche io, come il mio amico, non so pregare, sebbene mi sia stato insegnato con cura da mia madre. La preghiera rivolta a Dio appartiene al tempo dell’esistenza di Dio. Eppure ho deciso, con il consenso di mia moglie, di insegnare ai miei figli che è ancora possibile pregare perché la preghiera preserva il luogo dell’Altro come irriducibile a quello dell’io. Per pregare – questo ho trasmesso ai miei figli – bisogna inginocchiarsi e ringraziare. Di fronte a chi? A quale Altro? Non so rispondere e non voglio rispondere a questa domanda. E i miei figli, d’altronde, non me la pongono. Quando me lo chiedono, pratichiamo insieme quello che resta della preghiera: preserviamo lo spazio del mistero, dell’impossibile, del non tutto, del confronto con l’inassimilabilità dell’Altro. Amen, così sia, “sia così”. Nel tempo in cui il Padre non può più rispondere sul senso della vita e della morte, sul senso del bene e del male, nell’epoca che Lacan definisce dell'”evaporazione del padre”, quello che resta è la forza di una preghiera che intende rispettare il mistero di quello che semplicemente esiste.” (Recalcati, pp.11-13).

Non solo meditazione, quindi, concentrazione, silenzio …, proprio pregare, mettendosi in ginocchio!

Metto insieme questi due autori non perché abbiano qualcosa in comune, ma perché, a distanza e in modo diverso, rappresentano una posizione sempre più diffusa, anche se teorizzata in modi diversi: i cieli sono vuoti o, quantomeno muti, come muta e impotente è la ragione che si avventura verso la trascendenza; l’unico luogo nel quale è possibile fare esperienza di trascendenza è la relazione con l’Altro, l’esperienza della responsabilità nei suoi confronti. Il volto dell’Altro è il mio infinito. Levinas ha lasciato il segno!

Nell’ultimo suo libro (Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa) M. Recalcati se la prende con chi pensa che la fedeltà al patto matrimoniale, nonostante tutto, nonostante il tradimento, sia insensato, che l’amore sia solo narcisismo (Freud). Ha adottato un linguaggio sempre più intriso di riferimenti biblici; l’episoDio evangelico della donna adultera segue in parallelo l’evoluzione del suo discorso. Recalcati ci parla di vocazione, di fedeltà, di dono, di amore eterno, di responsabilità. Tra i ringraziati di Non è più come prima troviamo anche Enzo Bianchi “per la sua presenza silenziosa in me”. Ma rileva anche che la nostra “società orizzontale” è società senza Dio, decapitata. Il tempo della preghiera verso l’alto è finito per sempre. L’ideale (cattolico o comunista) è morto, ucciso dalla macchina del godimento mortale. Il nostro tempo è il tempo del godimento del branco (i Proci de Il complesso di Telemaco; vedi anche conferenza 2013, https://www.youtube.com/watch?v=AoRtX8-IGqo ).

Tutto questo potrebbe scandalizzare un credente e si potrebbe anche denunciare questa chiusura del cielo come incoerente rispetto alle esigenze etiche radicali portate avanti. Come si può scegliere il dono e il perdono senza la consapevolezza di appartenere ad una dimensione di dono più alta? Come si può parlare di vocazione senza un Vocante? Come si può scegliere per sé la preghiera come forma di vita, e una preghiera rivolta verso un Dio immaginato “come una persona sommamente saggia, gentile, giusta” (Putnam, p.109), senza credere in Lui? Come si può ancora parlare di etica in senso forte, se la chiusura verso una Trascendenza possibile diventa un pre-giudizio, una rivendicazione di autonomia assoluta?

Qui non si tratta di una nuova specie di “atei devoti”. Siamo molto lontani! Non posso entrare in una disamina della posizione filosofica di Putnam che ridarebbe coerenza al suo discorso. Vorrei fare solo una riflessione su quello che a me, credente, suggeriscono queste letture.

In Putnam, con riferimento esplicito a Rosenzweig, Buber e Levinas, la chiusura verso Dio, l’a-teismo, sanno di protesta verso una eccessiva intellettualizzazione della teologia – si tratta di un ribaltamento dell’importanza della pratica di vita e della esperienza rispetto al pensare Dio esercitato accademicamente. In Recalcati ha un peso anche la denuncia della trasformazione di Dio in un padre tiranno. Un altro autore, R. Kearny, propone un percorso per coloro che hanno rinunciato a Dio (a un certo Dio) ma continuano a cercarlo. La parola che propone per questo percorso è ana-teismo, un Dio dopo Dio. (R. Kearny, Ana- teismo. Tornare a Dio dopo Dio, Campo dei fiori, Roma, 2012).

In questa prospettiva sospendere Dio nel suo cielo o svuotare il cielo si può interpretare come un desiderio di ritrovare una relazione autentica con Dio, quella dell’Altro restituito alla sua alterità inquietante. Ricordo L. Alici, in una conferenza a Palermo, denunciare le nostre “liturgie senza trascendenza”.

Il credente corre sempre il pericolo di abituarsi ad una idea di Dio addomesticata, troppo facile, ideologica o sentimentale; ricavo da queste letture l’invito a rinunciare ad una qualunque idea “totalizzante” di Dio, per fare esperienza dell’essere accolti nella sua alterità!

Questa messa in mora del Dio facile mi suggerisce un’altra considerazione, questa volta sulla integralità dell’umanesimo.

Siamo invitati a cercare le tracce di Dio, non nel cielo astratto di una pietà autoreferenziale o dell’accademia teologica, ma nella “sintassi della vita quotidiana”, nel volto dell’Altro (Levinas), nella esperienza di un desiderio che chiama (Recalcati), nella esperienza dell’Io-Tu (Buber), lì dove l’altro cessa di essere esistente per me solo come ostacolo e resistenza e diventa, invece, termine di una relazione reale. La concentrazione sull’umano in quanto umano può diventare di nuovo esperienza di alterità reale e aprire una “fenditura” (Levinas) sul Mistero di un Altro.

A volte il riferimento diretto a Dio ha messo tra parentesi l’umano. Allora, nei casi più atroci, in nome di Dio si può uccidere. Altre volte il riferimento diretto a Dio ha considerato la legge divina come sistema morale scritto nella roccia pronto a stritolare la storia del singolo. A. Louf indica nel moralismo una delle tre tentazioni perenni del cristianesimo (vedi A.Louf, L’uomo interiore, Qiqajon; le altre due tentazioni sono il vangelo ridotto ad attivismo e il vangelo ridotto a ideologia).

Prendere molto sul serio l’umano, mettendo tra parentesi un Dio-proiezione degli interessi di una determinata cultura o classe sociale, o anche della sopravvivenza di una struttura ecclesiastica, può essere la via di una riscoperta di Dio attraverso l’umano.

La densità della relazione umana (padre-madre-figlio, uomo-donna) che sperimentiamo nella lettura dei testi di M. Recalcati, l’esperienza dello straniero, di una alterità reale, di una compromissione con l’altro non solo pensata e teorizzata, ma vissuta realmente, attraverso la quale ci conducono i filosofi commentati da H. Putnam diventano alla fine una naturale apertura verso la Trascendenza. L’esperienza umana, vissuta nella sua radicale serietà, è una via sicura verso Dio. Viceversa pensare Dio senza sperimentare la serietà della compromissione con l’Altro chiude la strada verso Dio.

Siamo tutti tentati di considerare Dio alla nostra portata, disponibile rispetto alle astrazioni del linguaggio chiesastico. Ma il facile quanto banale verbalismo di alcune nostre assemblee, come la chiusura sulle emozioni religiose, impediscono un’autentica esperienza di trascendenza. Dio si offre sempre a noi, ma rimane indisponibile alla nostra presa. Quando la mano dell’uomo si chiude su Dio e pensa di possederlo, diventa una mano di violenza e di morte.

Per tornare all’inizio e alla cura per un umanesimo integrale e trascendente, bisognerà allora che un’autentica trascendenza nasca da e porti a quel prendere sul serio l’umano che è cifra della tradizione biblica.

Nel documento Rigenerati per una speranza viva (1 Pt 1,3). Testimoni del grande “si” di Dio all’uomo” (Nota pastorale della CEI dopo Verona) ci viene ricordato che “nelle esperienze ordinarie tutti possiamo trovare l’alfabeto con cui comporre parole che dicano l’amore infinito di Dio“(n.12). Su questo alcune prassi pedagogiche e un certo modo di fare catechismo o proporre omelie dovrebbero interrogarsi.

Anche essere “testimoni del grande “si” di Dio all’uomo” ci invita alla cautela e ad un momento di sosta attenta. Ci aiuta a far questo Simone Weil.

Nella sua autobiografia spirituale scritta per il padre domenicano Joseph Marie Perrin, che tentava con delicatezza di convincerla a battezzarsi, Simone Weil dice di non sentirsi chiamata da Dio a entrare nella Chiesa Cattolica che pur ama. Sua vocazione è restare sulla soglia di essa per testimoniarle che essa è cattolica di diritto e non di fatto. Perché troppo di quel mondo che essa ama resta fuori dalle sue mura.

 

Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma il cristianesimo è, a mio avviso, cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne restano al di fuori, tante cose da me amate che non voglio abbandonare, tante cose amate da Dio, perché altrimenti sarebbero prive di esistenza. […] Dal momento che il cristianesimo è cattolico di diritto e non di fatto, considero legittimo da parte mia essere membro della Chiesa di diritto e non di fatto, all’occorrenza per tutta la vita e non soltanto per un periodo. […] Io penso, e lei pure, che l’obbligo dei prossimi due o tre anni – obbligo così rigoroso che venirvi meno sarà quasi un tradimento – è mostrare pubblicamente la possibilità di un cristianesimo veramente incarnato. […] Ma tutto è talmente connesso a tutto che il cristianesimo può realmente incarnarsi soltanto se è cattolico nell’accezione che ho definito. Come potrebbe diffondersi nell’intero corpo delle nazioni europee se non contenesse in sé tutto, assolutamente tutto? Salvo la menzogna, beninteso. […] C’è un ostacolo all’incarnazione del cristianesimo che è assolutamente insormontabile. Si tratta dell’uso di due piccole parole: anathema sit? Non già della loro esistenza, bensì dell’uso che ne è stato fatto sino ad ora. È anche questo a impedirmi di varcare la soglia della Chiesa. Io rimango al fianco di tutte le cose che, a causa di quelle due piccole parole, non possono entrare nella Chiesa, ricettacolo universale. e tra queste cose vi è la mia intelligenza” (S.Weil, Attesa di Dio, Adelphi).

Abbiamo forse lasciato fuggire tutta la bellezza del mondo per paura? Abbiamo ristretto l’ambito dell’azione e della presenza di Dio creatore entro orizzonti più facilmente gestibili? Abbiamo dato l’impressione di una religione incapace di accoglienza del nuovo?

Andare verso l’assemblea ecclesiale di Firenze comporta anche porsi queste domande.

 

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