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Tra verità e misericordia

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 di Giuseppe Savagnone 

     

È noto che il conflitto attualmente in corso nel Sinodo sulla famiglia ha come oggetto l’ammissione o meno all’eucaristia dei divorziati risposati col rito civile o conviventi. Due sono, a questo proposito, le posizioni dei vescovi, maturate già nel Sinodo del 2014 e ora riformulate più o meno negli stessi termini: da una parte coloro che,  partendo dal principio dell’indissolubilità del matrimonio sacramentale, sancito dalla tradizione alla luce del vangelo (Gesù stesso l’ha enunciato), vedono nella riammissione di quanti hanno rotto il vincolo matrimoniale una implicita negazione di questo principio (si tratterebbe, a questo punto, di eresia!); dall’altra quelli che, pur ribadendo la verità che il matrimonio è indissolubile (e che quindi il nuovo rapporto non è comunque un matrimonio),  si appellano alla misericordia per introdurre una pratica pastorale che consenta agli “adulteri” di essere nuovamente accolti nella comunità cristiana, sia pure valutando le loro responsabilità caso per caso e dopo un cammino penitenziale che faccia loro riconoscere il peccato commesso in passato.

     L’obiezione dei sostenitori della prima posizione a chi fa loro notare che sarebbe strano ritenere perdonabili tutti i peccati, compreso l’omicidio, tranne questo, è che, nel caso delle coppie conviventi, lo stato di peccato persiste e che il vero pentimento consisterebbe nel ripristinare la situazione precedente  o almeno, come prescrive la Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, nell’interrompere quella peccaminosa in atto, vivendo come fratello e sorella.

     A questo però si replica che, come nel caso dell’omicidio, anche in quello della fine di un rapporto matrimoniale vi è spesso qualcosa di irreversibile, che non si può più – e in certi casi sarebbe addirittura ingiusto (per esempio nei confronti dei figli nati dal nuovo rapporto) – ripristinare. Quanto al vivere “come fratello e sorella”, se si intende esclusivamente la rinunzia al coito, puntare su questo è decisamente riduttivo, perché lo stato di peccato è dato dall’amore verso una persona che non è il proprio marito o la propria moglie, e ciò va ben oltre il semplice atto sessuale (senza dire che,  anche restando a questo livello, l’intimità sessuale si esprime in tanti altri modi). Se invece si sta chiedendo, più radicalmente, di rinunziare ad amare la persona che si ama (e non come fratello o sorella), si tratta di una condizione impossibile.

     Questo il dibattito reale. Ma, su entrambe le posizioni incombe la minaccia, tutt’altro che ipotetica, della lettura del tutto falsante che i mass media e l’opinione pubblica ne danno, già quando etichettano i primi come “conservatori” e i secondi come “progressisti”, ma ancora di più quando indicano nella linea degli uni una chiusura reazionaria fuori dal tempo e in quella degli altri “un passo avanti” (che prelude ad altri, futuri, più decisi) verso un adeguamento della Chiesa ai criteri della società moderna. È inutile sottolineare quanto  un simile equivoco danneggi in realtà i sostenitori di entrambe le posizioni, soprattutto quelli della seconda, che vedono confuso il loro richiamo alla misericordia evangelica con un puro e semplice cedimento alle mode culturali oggi dominanti.

     Rassegnandoci fin da ora – quale che sia la conclusione a cui giungeranno i padri sinodali –  a vedere in prima pagina sui giornali e nei notiziari titoli del tipo «Vince la conservazione», oppure «Da ora in poi rifarsi una famiglia non è più peccato», chiediamoci come potrebbero conciliarsi le due giuste esigenze che questo dibattito vede in opposizione.

    Un contributo importante (e che ha avuto nel Sinodo un’eco positiva) è venuto dalla relazione del circolo di lingua tedesca, approvata all’unanimità da autorevoli prelati dell’una e dell’altra linea, anche perché incentrata su una citazione di s. Tommaso d’Aquino che, con la sua autorevolezza, sembra aver superato la logica della contrapposizione. Dice il testo del grande Dottore medievale: «Compito della prudenza non è soltanto la considerazione del principio razionale, ma anche l’applicazione di esso ai comportamenti concreti, che è il fine della ragion pratica». In altri termini:  i princìpi, in ambito morale (la virtù della prudenza o saggezza è quella che deve guidare in questo campo), non vanno presi astrattamente, ma si devono necessariamente tradurre nei termini delle situazioni reali.

     Insomma, quando sono in gioco non i dogmi della fede (che riguardano le verità immutabili della rivelazione), ma le regole delle azioni umane, sempre situate nella complessità e nella problematicità della vita, la verità non può essere considerata tale se non si coniuga con la sua traduzione in un dato contesto esistenziale. La misericordia non è un’eccezione alla verità, ma il solo modo di rispettarla. Senza empatia con i casi e le persone concrete, i princìpi si trasformano in asettici teoremi celesti, il contrario di quello che la logica dell’incarnazione suggerisce.

    Qualcuno ha detto: «Ci voleva san Tommaso per mettere tutti d’accordo!». Troppo ottimista. La convergenza sull’enunciato sopra esposto dovrà misurarsi con il dibattito in aula. Ma forse recuperare il pensiero di questo grande maestro del passato può fare bene, in questo delicato momento di transizione,  alla Chiesa del presente.

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