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Europa, il sonno della politica

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di Barbara Spinelli

 Succede solo in quest’Europa, attratta dal naufragio non a causa dell’economia ma della convulsa scempiaggine della sua politica: parliamo dello scandalo di una Corte costituzionale tedesca divenuta cruciale per ogni cittadino dell’Unione, mentre la Corte costituzionale in Portogallo vale zero. Parliamo di Jens Weidmann, governatore della Banca centrale tedesca, che accusa Draghi di oltrepassare il suo mandato – salvando l’euro con i mezzi a sua disposizione – e senza vergogna dichiara guerra a una moneta che chiamiamo unica proprio perché non appartiene solo a Berlino. 

Il mandato della Bce è chiaro infatti, anche se Weidmann ne contesta la costituzionalità: mantenere la stabilità dei prezzi (articolo 127 del Trattato di Lisbona), ma nel rispetto dell’articolo 3, che prescrive lo sviluppo sostenibile dell’Europa, la piena occupazione e il miglioramento della qualità dell’ambiente, la lotta all’esclusione sociale, la giustizia e la protezione sociali, la coesione economica, sociale e territoriale, la solidarietà tra gli Stati membri. Qualcosa non va nella storia che si sta facendo, se l’articolo 3 neanche fa capolino sul sito Internet della Bce, per timore che Berlino magari s’adombri.

 Fra poco più di un anno, nel maggio 2014, voteremo per il rinnovo del Parlamento europeo. Soprattutto per gli italiani sarà una data diversa dal solito. Perché l’Europa della trojka (Bce, Commissione, Fmi) pesa sulle nostre vite come mai in passato. Perché le sue medicine anti-crisi sono contestate ovunque dai popoli, scuotendo perfino il medico che più ardentemente le propina: il 22 settembre i tedeschi andranno al voto e forse premieranno un partito antieuropeo – Alternativa per la Germania – appena nato nel febbraio scorso. I partiti dovranno smettere le menzogne che vanno dicendo, sulla possibilità di “piegare” Angela Merkel. Specie in Italia, dovranno piantarla di tradire elettori e cittadini. Per la prima volta infine, se oseranno, potranno indicare il presidente della Commissione. Sta nei trattati.

 Se parliamo di menzogne, è perché nessun governo è in grado di piegare Berlino con gli argomenti esclusivamente economici fin qui sbandierati: un po’ meno austerità, un po’ di crescita, qualche condono. Convinta com’è che siano i mercati e nessun altro a disciplinarci, Berlino si muoverà solo se la politica prevarrà su tesi economiche degenerate in dogmi. Se governi, partiti e cittadini accamperanno visioni chiare di quella che deve essere un’altra Europa: non quella presente, dotata di risorse minime, precipitata in ottocenteschi equilibri di potenze.

 L’Unione somiglia oggi a una Chiesa corrotta, bisognosa di uno Scisma protestante: di una Riforma del credo, dei vocabolari. Di un piano con punti precisi (erano 95 le tesi di Martin Lutero). Il Papato economico va sovvertito opponendogli una fede politica. Solo così la religione dominante s’infrangerà, e Berlino dovrà scegliere: o l’Europa tedesca o la Germania europea, o l’egemonia o la parità fra Stati membri. Sempre ha dovuto scegliere in tal modo: l’Europa, disse Adenauer nel ’58, “non va lasciata agli economisti”.

L’ortodossia tedesca è antica ormai, s’affermò nel dopoguerra e si chiama ordoliberalismo: i mercati sanno perfettamente correggere gli squilibri, senza ingerenze dello Stato, perché dotati di immutata razionalità. È l’ideologia della “casa in ordine”: ogni nazione espierà le proprie colpe da sola (Schuld vuol dire debito e colpa, in tedesco). Solidarietà e cooperazione internazionale vengono dopo, a coronare i compiti a casa se benfatti. Come in Inghilterra, viene invocata ingannevolmente anche la democrazia: trasferire parte della propria sovranità svuota i parlamenti nazionali. Per questo la Corte costituzionale tedesca è pregata di pronunciarsi su qualsiasi mossa europea.

Se è inganno, è perché nella fattoria-Europa non tutte le democrazie sono eguali: ce ne sono di sacrosante, e di dannate. Il 5 aprile scorso, la Corte costituzionale portoghese ha rigettato quattro misure dell’austerità imposta dalla trojka (tagli agli stipendi statali e alle pensioni), perché contrarie al principio di uguaglianza. Il comunicato diramato due giorni dopo dalla Commissione europea, il 7 aprile, ignora del tutto il verdetto, “si felicita” che Lisbona prosegua la terapia concordata, rifiuta ogni rinegoziato: “È essenziale che le istituzioni politiche chiave del Portogallo restino unite nel sostenere” il risanamento così com’è. Il diverso trattamento riservato ai giudici costituzionali tedeschi e portoghesi è a tal punto disonesto che l’Europa difficilmente sopravviverà come ideale nei suoi cittadini.

Alcuni dicono che può sopravvivere se l’egemonia tedesca si fa più benevola, restando egemonia. George Soros l’ha chiesto nel settembre 2012 sul New York Review of Books, con solidi argomenti. Lo esige il governo polacco. In Germania lo domanda chi teme non già l’egemonia, ma una poco splendida, introversa autoidolatria.

Egemonia e autoidolatria sono tuttavia i sintomi, non la causa del male che cronicamente assilla la Germania. Sempre ai suoi governi è toccato fare i conti con il dogma della casa in ordine. Sin dal dopoguerra la sua politica della memoria fu mutila: conscia come nessun altro del passato nazi-fascista, ma dimentica del ciclone economico che tramortì i tedeschi, negli anni ’30, con l’austerità delle riparazioni inflitte dai vincitori. Lo scherzo della storia è atroce: proprio Keynes, che aveva denunciato nel ’19 la punizione disciplinatrice dello sconfitto, è l’economista più inviso in Germania.

 Se la Germania ha voluto un’Europa sovranazionale, fino a inserirla nella Costituzione, è perché gli ordoliberali (nella Banca centrale, nelle accademie) sono stati ripetutamente disarcionati. Adenauer impose la Cee e il patto franco-tedesco a un ministro dell’Economia – Ludwig Erhard – che fece di tutto per affossarli. Che accusava la Cee di “endogamia” protezionista, di “scemenza economica”. Con Londra provò a sabotare i trattati di Roma, preferendo di gran lunga una zona di libero scambio. Non l’ascoltarono né Adenauer, né il primo capo della Commissione Hallstein, grazie ai quali la razionalità politica vinse. Lo stesso scenario riapparve con l’euro: anche qui, aggrappato a Parigi, Kohl antepose la politica scavalcando economisti mainstream e Banca centrale. Oggi il bivio è simile, ma con politici camaleontici, senza più volontà ferme. La crisi ha disilluso il popolo tedesco. L’ordoliberalismo si politicizza, assapora vendette antiche.

Non resta quindi che lo Scisma: la costruzione di un’altra Europa, che parta dal basso più che dai governi. Un progetto già c’è, scritto dall’economista Alfonso Iozzo: secondo i federalisti, può divenire un'”iniziativa dei cittadini europei” (articolo 11 del Trattato di Lisbona), da presentare alla Commissione. L’idea è di munire l’Unione di risorse sufficienti per fare crescita al posto di Stati costretti al rigore. Una crescita non solo meno costosa, perché fatta insieme, ma socialmente più giusta e più ecologica, perché alimentata dalla tassa sulle transazioni finanziarie, dalla carbon tax (biossido di carbonio) e da un’Iva europea. Dalle prime due tasse si ricaverebbero 80/90 miliardi di euro: il bilancio comune rispetterebbe la soglia dell’1,27 concordata a suo tempo. Mobilitando Banca europea degli investimenti ed eurobond, avremmo un piano di 300/500 miliardi, e 20 milioni di nuovi posti di lavoro nell’economia del futuro (ricerca, energia).

Per fare queste cose occorre tuttavia che la politica torni alla ribalta e ridiventi, come dice l’economista Jean-Paul Fitoussi, non un insieme di regole automatiche ma una scelta. Occorre l’auto-sovversione di Lutero, quando scrisse le sue 95 tesi e disse, secondo alcuni: “Qui sto diritto. Non posso fare altrimenti. Che Dio mi aiuti, amen”.

 

da Repubblica, 15 maggio 2013

 

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