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“Non sia turbato il vostro cuore”. Lectio divina di Gv 14, 23-29

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01 maggio 2016 – VI domenica del tempo di Pasqua

 

“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.24 Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. 25 Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26 Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. 27 Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. 28 Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. 29 Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate.

                        

Il discorso di Gesù, di cui la liturgia ci offre uno spaccato, nella VI domenica di Pasqua proviene dal Vangelo di Giovanni e fa parte dei cd. discorsi d’addio del capitolo 14: Gesù annunzia la sua partenza e il suo ritorno, richiamando la sua imminente passione e, in questo contesto, si inseriscono le parole rivolte alla comunità dei discepoli in vista del tempo in cui il maestro non sarà più con loro, almeno nelle modalità che i discepoli avevano fino a quel momento sperimentato.

 

In altre parole, questo brano cerca paradossalmente di predisporci a gestire il problema della assenza fisica di Gesù. Si tratta di un problema di non poco conto, se pensiamo alla esperienza spirituale più comune per l’uomo di oggi; è frequente che, quando ci accorgiamo che Dio non interviene secondo le nostre aspettative, confessiamo di non sentirne la vicinanza o di aver scoperto un Dio astratto o distante, che non si interessa della nostra vita. E questo ci avvia verso un percorso di – impercettibile ma costante – allontanamento dalla via di Dio, che rischia alla fine di cristallizzarsi in un rifiuto della fede.

 

Ecco perché le parole di questo Vangelo risuonano come buona notizia pasquale, nonostante il contesto drammatico della imminente passione di Gesù.

 

In effetti, anche per i discepoli, la notizia dell’allontanamento del maestro rischia di essere spiritualmente letale e per ben due volte (vv. 1 e 27) Egli li invita a non turbarsi: “non sia sconvolto il vostro cuore, né si sgomenti”. Gesù comprende che il suo annuncio crea un vuoto, non dovuto solamente alla prospettiva della perdita del maestro, ma anche ad un vero e proprio smarrimento di senso. I discepoli non hanno ancora compreso l’identità di Gesù, né il fulcro del suo messaggio: la domanda di Filippo e la risposta amareggiata di Gesù (vv. 9-10: “da tanto tempo sono con voi e non mi hai ancora conosciuto, Filippo?”) ne sono una rivelazione, così come i vv. 16-19 del capitolo 16.

 

La domanda che introduce il nostro brano è peraltro costituito dalla risposta di Gesù a Giuda (“non l’Iscariota”: Gv 14,22) che gli aveva chiesto perché mai si sarebbe manifestato solo ai suoi, ai discepoli, e non al mondo.

 

Questo discepolo è sulla stessa lunghezza d’onda dei fratelli di Gesù che lo spingevano a uscire dal nascondimento, a manifestare pubblicamente i suoi segni e prodigi, a svelarsi a tutti con i convincenti mezzi del prodigioso, dello straordinario (“Nessuno agisce di nascosto, se vuole essere riconosciuto pubblicamente. Se fai queste cose, manifestati al mondo!”: Gv 7,4). Questa lunghezza d’onda traversa l’etere e le epoche e sempre si ripropone nella chiesa come tentazione di cercare un consenso facile, di evitare piccolezza e umiltà per cercare i grandi numeri, per avere pubblicità e audience.(Manicardi)

 

Il discorso di Gesù si pone, dunque, come un messaggio che tende a dissipare il senso di frustrazione che sembra attanagliare i discepoli: l’idea che egli intende comunicare è che la sua partenza non comporterà un’assenza, ma una presenza nuova, diversa, non più concreta. Ciò che resterà sarà, innanzitutto, la Parola di Dio, l’incontro con Gesù, ormai indissolubilmente unito al Padre, si realizzerà, per i discepoli come per noi, non più sulle strade del mondo ma nella custodia amorevole e fedele di questa Parola, nelle Scritture e nelle relazioni comunitarie, che Gesù lascia e che è essa stessa già rivelazione del Padre.

 

Chi pratica e custodisce la Parola sa di non essere solo, ma è certo che Padre e Figlio dimorano sempre (moné) presso di lui (qui è interessante l’uso di due diverse particelle: verremo presso di lui, che indica un rapporto di intimità e amicizia tra il Signore e i discepoli, e faremo dimora accanto a lui, in un rapporto quasi di ospitalità e comunione).

E, tuttavia, la custodia della Parola per Giovanni non è il semplice frutto di una volontà o di un impegno umano; al dono di sé stesso attraverso la Parola, Gesù fa seguire la promessa del dono dello Spirito che si realizzerà nella Pentecoste; uno Spirito che non è diverso da Gesù stesso (al v. 16 Egli parlava di un altro Paraclito, visto che il primo “avvocato difensore” che intercede presso il Padre è proprio Lui stesso, Gesù) e che dopo la dipartita di Gesù continua senza interruzione la sua opera di rivelazione.

 

In questo consiste, infatti, la funzione consolatoria e protettiva del Paraclito, nel “ricordare” quanto Gesù ha detto, nel continuare a parlare di Lui e della Sua opera di salvezza. Ci rimanda continuamente al cuore della promessa straordinaria di Dio attraverso Gesù Cristo, lo Spirito permette di mantenere in vita la forza dirompente di questa promessa indirizzata, al contempo, a ciascuno dei discepoli e alla comunità intera.

 

Dice bene Manicardi: Senza una relazione personale autentica con il Signore, senza una vita spirituale nascosta, ma reale, tutto il resto rischia di essere scena, politica ecclesiale, apparenza di vita più che autentica vita. Senza l’azione interiore e nascosta dello Spirito nel credente, la chiesa rischia di essere raduno di militanti, più che comunione di discepoli. Ecco dunque che Gesù ribadisce quelle verità elementari e irrinunciabili che fanno di un uomo un credente: l’amore per il Signore, l’ascolto della sua Parola (cf. v. 23), la vita interiore animata dallo Spirito (cf. v. 26)”.

 

La buona notizia non si ferma qui. Lo Spirito di Gesù ci aiuta non solo perché è presente accanto alle nostre stesse fragilità ed alle nostre stanchezze (con cui siamo chiamati a interagire continuamente senza sconti “nello Spirito”), quanto piuttosto perché ci introduce al senso vero della identità di Gesù ed, in definitiva, di sé stessi.

 

Tutto ciò si esplica in un frutto specifico: la pace. Il dono dello Spirito fa, infatti, tutt’uno il dono della pace, una pace che non è la pace del mondo, una atarassica assenza di conflitti, ma l’ingresso reale nel Regno di Dio, la capacità di guardare al mondo con gli occhi benevoli e misericordiosi del Cristo.

                                                                                                                                                         

                                                                                                                                                                                                              Lorenzo Jannelli

 

 

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