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Dante parla ancora – Giustiniano e la forza delle istituzioni (Paradiso VI)

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Nel cielo di Mercurio

Dal cielo della Luna al cielo di Mercurio. Spiriti che hanno fatto il bene ottenendo fama e gloria. Come in un acquario, nuotano pesci luminosi che all’apparire di Dante e Beatrice si accendono ancor di più per il desiderio di compiacere l’inatteso pellegrino. Uno di loro, a chiusura del quinto canto, si rivolge a Dante invitandolo a parlare. È l’anima dell’imperatore Giustiniano, ma Dante non può riconoscerla. Sarà il canto sesto a rivelarne l’identità.

Eccezionalmente non riprodurrò qui specifici focus del canto, perché ritengo che il significato si colga questa volta dall’interezza dell’operazione testuale compiuta da Dante. Occorre pertanto farne una sintesi.

La rievocazione storica di Giustiniano

Mai nella Commedia un canto è interamente occupato dal discorso di un personaggio. In questo caso, come detto, Giustiniano.

È stato imperatore di Roma nel VI secolo dopo Cristo, quando l’autorità imperiale aveva come suo unico centro Costantinopoli, dopo la caduta della parte occidentale nel 476. È noto per avere riorganizzato tutta la giurisdizione romana consegnando ai posteri il Diritto che fa da base alla cultura giuridica dell’Occidente (Corpus iuris civilis). È, si direbbe, un uomo votato allo ius. È il simbolo dell’autorità esercitata dalle istituzioni. Così vorrei leggerlo. Ma andiamo per ordine.

Giustiniano simboleggia con l’Aquila il potere imperiale, romano e cristiano. È un’aquila che vola attraverso i secoli e governa il mondo fin dai tempi leggendari di Enea, che profugo da Troia conquistò il Lazio e diede origine alla discendenza che approderà prima ai sette re di Roma e poi al governo della Repubblica.
Giustiniano passa in rassegna gli episodi salienti della storia di Roma, ma con una caratteristica peculiare: le imprese sono tutte compiute dal “sacrosanto segno”, chiamato anche “uccel di Dio” o “pubblico segno”. L’aquila conquista, governa e si sacrifica per l’istituzione, prendendo il nome ora di Pallante, ora di Lucrezia, ora degli Orazi, ora di Scipione, e ancora di Giulio Cesare, fino ad Ottaviano Augusto.

Alighieri, per bocca di Giustiniano, ripercorre il volo storico della provvidenziale aquila, che governa il mondo in nome di Dio prima ancora che il cristianesimo prenda forma.
Anzi, è proprio qui che cade l’enfasi suprema del racconto, quando Giustiniano vede realizzarsi il progetto di Dio sotto il regno di Tiberio con l’incarnazione e morte di Gesù. La vicenda divina si intreccia con la storia senza salti, ivi includendo la distruzione di Gerusalemme – frutto di giustizia divina agli occhi di Dante – da parte dell’imperatore Tito.

Ma l’aquila non si ferma ad Augusto, perché, con un balzo storiografico ardito, la rivediamo, ben oltre la vita terrena dello stesso Giustiniano, sotto le spoglie di Carlo Magno che protegge la chiesa dal “dente longobardo”. È un’unica vicenda da Enea fino a al sacro Romano Impero fondato da Carlo. Quel che è ancora giuridicamente vigente cinque secoli dopo, mentre Alighieri scrive.

L’urgenza dell’attualità

Ma perché rievocare questa vicenda? Lo dice chiaramente il nostro personaggio: perché Guelfi e Ghibellini capiscano la stoltezza che c’è nel loro operare.
I Ghibellini compiono nefandezze in nome dell’autorità imperiale che indegnamente rappresentano, i Guelfi si oppongono alla stessa servendosi della monarchia francese. Il focus non è il passato ma il presente. Giustiniano rievoca la storia come monito per chi agisce da smemorato.
Guelfi e Ghibellini infatti sono visti come la “cagion di tutti vostri mali” perché operano mossi da odio di parte, da desiderio di potere e di sopraffazione. In particolare è da notare quel che si dice dei Ghibellini: «Faccian li Ghibellin, faccian lor arte/sott’altro segno, ché mal segue quello/sempre chi la giustizia e lui diparte» (I Ghibellini facciano la loro opera sotto altre bandiere, perché è infedele a quella bandiera chi da essa separa la giustizia). È anche ciò che ha causato l’esilio di Dante.

L’ingiustizia verso il giusto: Romeo

L’ultima parte del canto cambia registro. Giustiniano rievoca la vicenda privata di Romeo di Villanova, un funzionario medievale che ha operato per il bene delle istituzioni ricevendone quel che oggi si chiama “fango”. E per questo concluse la vita in miseria. E per questo si trova in Paradiso. Concretizzazione privata della degenerazione pubblica.

Un’idea di istituzione

A leggere il canto si potrebbe avere la sensazione di cose superate. Nostalgie medievali di Dante, che vagheggiano un’autorità imperiale ormai ininfluente. Ma occorre forse andare oltre. Andare, come sempre, al metodo.
Qui c’è di mezzo un presente funestato da odi di parte, vendette, particolarismi vissuti nel conflitto e nel sangue. È il tempo di Dante. E ne paga egli stesso le conseguenze con l’esilio.
Alighieri è presente in ogni piega del discorso di Giustiniano. Quel che viene offesa al tempo di Dante è l’idea forte di Istituzione, cioè di ciò che deve fare da terzo nelle contese partitiche. La dialettica delle convinzioni politiche non può piegare le istituzioni ai propri interessi oppure tirare dritto come se le istituzioni non ci fossero.
I Ghibellini sono indegni di rappresentare le istituzioni come lo è ogni forza politica che da posizioni di governo sbeffeggia leggi, istituzioni e costituzioni. I Guelfi oppongono alle istituzioni forze alternative, portatrici di interessi privati, minando le radici pubbliche del vivere civile.

Un’idea di giustizia

Spesso Giustiniano nomina la parola “giustizia”, che è il tema forte del canto. Se l’istituzione non porta lo ius, ogni convivenza pacifica è impossibile. Non importa che in tempi medievali la garanzia di questo ius provenga dalla chiesa, come magari ancor oggi qualcuno vorrebbe.
Se alla parola “chiesa” sostituiamo “etica pubblica” (e i due termini non sono affatto sinonimi perché non tocca alla chiesa in via prioritaria la custodia dell’etica pubblica), comprendiamo che il discorso di Giustiniano vede nell’istituzione il luogo capace di garantire l’armonia dei legittimi antagonismi politici.
E non a caso l’excursus storico passa da figure che per l’istituzione hanno sacrificato la propria vita.

Un’idea di storia

Però è la memoria che consente a tutto questo di dispiegarsi e di rendersi eloquente ancor oggi. Giustiniano fa memoria delle vicende storiche che hanno costruito l’istituzione. I nostri studenti studiano storia per essere interrogati a scuola, e solo raramente si fa vedere che nella storia potrebbero trovare le ragioni del loro presente.
Giustiniano affronta il presente muovendo da lontano, riarticolando vicende note e meno note. Certo, attraverso quel racconto, Alighieri manifesta una sua visione (provvidenzialista) della storia, ma guai a chi ancor oggi leggesse la storia senza cercarvi un filo, un senso, quale che sia.
È come la vita dei singoli uomini. Se ne vuoi cogliere l’attualità devi partire da lontano, ricordare, connettere, tentare di spiegare. La ricerca che dura una vita intera.

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