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Recensione a “Fatti per l’infinito” di Joseph Ratzinger

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Recensione a “Fatti per l’infinito” di Joseph Ratzinger, Ed. Itaca 2020

Origine e destinazione, abissalmente distante e pur capace di baluginare, in forma attenuata, nell’affiorare di alcune esperienze irriflesse. Una musica, un’icona orientale, la forza della parola retorica, la stessa bellezza possono far trapelare la sua presenza. Questa, in estrema sintesi, è la natura dell’infinito su cui riflette un libro di Joseph Ratzinger che raccoglie i suoi 3 interventi – qui ripercorsi alla stregua di altrettante strade – al “meeting per l’amicizia tra i popoli”, tradizionalmente organizzato a Rimini dalla Fraternità di Comunione e Liberazione.

Il testo, edito da Itaca libri, si intitola “Fatti per l’infinito”, espressione tratta dal messaggio che Benedetto XVI ha inviato alla manifestazione nel 2012, in cui si ripercorre con il progressivo incedere della modernità  l’itinerario, graduale ma inesorabile, dello svellersi dell’uomo da questa radice prima e ultima.

E’ necessario, invece, riaffermare che oggi noi non sappiamo più chi siamo perché non sappiamo di chi siamo: la nostra destinazione è inscritta nella nostra stessa origine. Così leggere questo piccolo libro equivale a compiere un viaggio affascinante: non si tratta di tornare, come Ulisse, nella pietrosa Itaca, ma di riappropriarci del donde originario, di quella nostra prima attività che, a ben guardare, risiede nella passività di essere stati creati, nella sorgiva e feconda dipendenza dal Padre.

Con una guida d’eccezione possiamo così avventurarci lungo alcuni sentieri, dissetandoci di infinito, fonte originaria d’acqua viva che zampilla per la vita eterna. La modernità ignara della lezione dei teologi medioevali aveva creato l’autostrada della ragione autonoma, quella dell’uomo che, fattosi da se, risponde solo a lui stesso. Oggi questa via – lo vedremo analizzando il messaggio del 2012 – si rivela, come intuito dagli scolastici, labirintica, un dedalo in cui qualsiasi tesi appare controvertibile, simile a un naso di cera che, abilmente modellato, può essere indirizzato in ogni direzione.

Pensiero attualissimo se qualsiasi affermazione ci appare eterea proprio come la sostanza secreta dalle api, tanto che l’abilità del suo modellatore risulta spesso più importante dell’intrinseca validità delle argomentazioni. Il sofista Gorgia non aveva torto nel rilevare come la parola fosse un grande dominatore fornendone la prova nel celebre “encomio di Elena”, che il mito considerava come la sola colpevole della guerra di Troia.

Mentre nella testa le tesi si confrontano e l’uomo vaga come una canna in balia del vento sedotto ora da questo ora da quell’argomento, esiste un altro organo, il cuore che semiticamente riassume la sua profonda nostalgia di quella bontà originaria che è assieme verità. Capace di colpirlo, fino a farlo sanguinare, è il dardo della bellezza che instaura con lui un colloquio in cui, dopo la passione del cristo, il dolore, il male, la stessa menzogna non sono assenti.

La freccia ci indica così una prima via di questo ritorno originario e originante, un sentiero  percorribile da tutti, specie  in un mondo in cui  la fede non rappresenta più un’orizzonte comune. Come può essere credibile il messaggio della bellezza davanti alle brutture della storia? Domanda cruciale che però non riesce a sconfiggere tutto il pulchrum: ci invita piuttosto a superare, nella passione di Cristo, l’idea greca della grazia come armonia. La menzogna, l’eccesso del disordine e del male, parrebbero costituire, soprattutto dopo esperienze drammatiche come i campi di sterminio, un punto di non ritorno dal quale sgorga inevitabile la questione aporetica su dove fosse finito Dio.

Ecco perché l’imperturbata bellezza di Apollo non ci basta più: abbiamo , invece radicalmente bisogno della passione. Ci avvince il paradosso biblico per cui di Cristo si può dire  sia “tu sei il più bello tra i figli dell’uomo”, sia “non ha né apparenza né bellezza, il suo volto è sfigurato dal dolore”. Paradosso illuminato sapientemente da Agostino di Ippona, autore di un libro sul bello e sul conveniente andato perduto e personalmente sensibile al fascino della musica e della retorica. L’Insigne dottore della Chiesa vede in queste due affermazioni apparentemente antitetiche gli squilli di altrettante trombe, certo diverse, ma suonate dal soffio del medesimo spirito.

Nel secondo testo si tratta di leggere il Salmo 44 alla luce di Isaia 52. Da questa pericope scaturisce la diatriba affrontata dai Padri se Cristo fosse fisicamente bello, oltre che il problematico nesso tra l’estetica e una dimensione sofferente del vero. Anche Per questa via la rivelazione prosegue e scompagina, come vedremo analizzando l’opera di Platone e la sua rilettura nei teologi orientali, l’idea ellenica di bellezza. Ancora una volta davanti all’estremo cimento del male a cadere è la concezione del Pulchrum come armonico. Lo splendore di Cristo che soffre nella passione è talmente umano da poter essere deriso, gli  si può persino sputare addosso, lo si può cingere con una corona di spine  parodia di una  regalità solo apparentemente impotente. Eppure, proprio per questo motivo, la sua vicenda ci riguarda profondamente, tanto che noi stessi possiamo appartenergli.

Il fallimento, il rinnegamento, lo scacco, lo stesso dolore non solo non gli sono estranei, ma, a contrario, parrebbero costituirlo. E’ la passione a rendere possibile, diversamente da quanto oggi si sente dire spesso, il poetare, il suonare, il pensare a un Dio buono. Anche dopo l’eccesso del male nel Dio paziente, il bello riceve un realismo nuovo, effigiato nella Sacra Sindone di Torino. Appare così l’estrema bellezza quella dell’amore  che sconfigge la menzogna anche quando si presenta come verità. “Oltre me, parrebbe dirci la falsità, non vi è nulla, inutile, quindi, cercare il vero, vano amarlo”. Discorso seducente ma fatuo, poiché  esiste sempre come dimostra l’opera di hans urs von balthasar la possibilità di un’estetica teologica.

La stessa pastorale, anche prescindendo dalla parziale ricezione accademica del gesuita tedesco, è chiamata a favorire l’incontro dell’uomo con la bellezza della fede. In questa prima via si dischiudono così alcune possibilità esplorative: la musica, le icone, le grandi opere della pittura occidentale purificano i nostri sensi portandoci a vedere la realtà della gloria di Dio. Soprattutto la vista che nella cultura filosofica greca coincideva con il sapere stesso necessita di un cammino: solo un digiuno di quella naturale può dilatare, come affermano i teologi dell’Oriente confini nuovi e inattesi.

A questa seconda vista l’icona apparirà nel suo fulgore. Non si tratta infatti della riproduzione di quanto intuito dai sensi: solo nell’ascesi l’artista scorge la gloria di Dio avendo accesso a un raggio del suo splendore. Un raggio che balugina anche nelle vite dei Santi: per questo sia tramite l’arte cristiana, sia tramite l’agiografia, occorre educare i fedeli a un  contatto intimo, mistico, profondo con il bello che precede, in certo modo ridonandole l’ampiezza dello stupore, la stessa ragione. Nella riflessione di Ratzinger il rapporto tra pensiero greco e speculazione  cristiana non è mai né solo antifrastico, né unicamente connotato dalla continuità, ma si nutre di entrambe.

Così anche nel caso della bellezza è il Cristianesimo a donare un volto, pur se sfigurato dal dolore, e soprattutto un nome a quel fulgore che l’Ellade, benché  in forma anonima, aveva intuito. Nel “Fedro” platonico, perduta la sua origine, l’uomo ne serba il ricordo e, mosso  dalla nostalgia è innalzato, proprio dalla bellezza, oltre il quotidiano. Il pulchrum è una scossa emotiva che lo induce  a cercare un qualcosa di vago, avvertita come  esistente, pur senza saperla nominare. Nel “Simposio” – altra opera dell’ autore della “Repubblica” dedicata all’amore- le anime, riconosciutesi come  affini, non sanno cosa vogliono l’una dall’altra e l’Eros  non è tanto figlio della sovrabbondanza quanto della mancanza.

Post Cristum natum, nel teologo bizantino Cabasilas questa bellezza diverrà Gesù, lo sposo che ha inviato un raggio della sua luce. Un simile splendore  si palesa nell’intensità del desiderio, richiamando l’uomo al suo destino ultimo: questa bellezza è conoscenza, perché possiamo amare solo ciò che abbiamo esperito. Niente irrazionalismo, niente estetismo superficiale: al contrario una dilatazione progressiva necessaria alla stessa ragione. La conoscenza genera l’amore: vi sono due tipi di gnosi quella guadagnata  tramite l’istruzione  e quella che, mediante  l’esperienza crea un  rapporto con le cose.

Occorre, in un simile  orizzonte, essere toccati dalla realtà, dalla presenza di Cristo stesso in un modo che può rivelarsi più profondo della mera deduzione razionale. Questo naturalmente non significa che non sia necessario operare con l’intelletto le debite distinzioni in campo teologico; vuol dire invece che la scienza della fede è chiamata a dilatare i suoi orizzonti verso paesaggi nuovi ed inesplorati. Occorre cercare  questa forma di esperienza che è conoscenza e questa conoscenza che è amore, ma  possiamo farlo solo nella e grazie alla bellezza. In questa ricerca si profila immediatamente un nuovo paradosso, non necessariamente contraddittorio, come tutte le vere antifrasi. Una bellezza che sia solo gaia, edonista, paga di se, ci lascia ultimamente insoddisfatti.

Quando un’orchestra smette di suonare, privati della meraviglia dello spettacolo noi restiamo come in un torpore, sordi al sublime. A dominare sono la nostalgia e la tristezza: eppure qualcosa o qualcuno possono ancora destarci. Il subitaneo risveglio avverrà se ci parleranno di una bellezza sconosciuta che ferendoci avvii, per una seconda volta, il cammino di una vita attinta dallo stupore. La liturgia quaresimale, in cui Dio stesso ci chiama a servirlo nella Chiesa sua sposa, conduce in modo speciale verso lo splendore della verità. Si narra infatti di una bellezza che, mentre comprende il dolore, lo accetta vivendolo in lei stessa, tanto da sovvertire i pur apprezzabili parametri estetici dell’uomo ellenico.

Occorre mutare il rapporto tra verità e bellezza: accogliere  la sofferenza  senza ignorarla nella prefigurazione di futuri paradisi, o di un’armonia conciliata sì, ma falsa. Associare il proprio  dolore a quello” dell’uomo dei dolori che conosce il patire” significa dischiudere la strada, certo impervia, ma capace di condurre a una bellezza diversa, che sappia  traversare  persino la morte. Una strada che implica necessariamente il cimento  della  riflessione sull’uomo come rapporto con l’infinito. È questa la seconda via di accesso al grande mistero per cui siamo fatti, e che al contempo, mentre ci trascende, abita in noi, da quando, con l’incarnazione, è divenuto uno di noi. Il già citato messaggio indirizzato al meeting del 2012 ci consente di percorrere questo itinerario partendo dal nostro essere uomini, da quel senso costitutivo di inappagamento che lo connota.

Anche se, almeno apparentemente, nulla ci manca, mentre la nostra esistenza pare scorrere su binari  tranquilli, sempre siamo animati dal desiderio della ricerca. Tendiamo verso l’oltre, vorremmo indossare un vestito più bello, sedere su una poltrona più comoda, gustare un cibo più buono. Questa insoddisfazione non va stigmatizzata: rappresenta infatti, sia una costitutiva cifra dell’umano, sia, soprattutto, un pungolo. Grazie a lei noi non vestiamo più di pelli e non abitiamo più nelle caverne.

Tutto ci sembra piccino per l’animo umano che non potrebbe essere colmato neppure dal mondo intero: il nostro cuore, sempre affamato di altro e di oltre, si rivela l’alleato più prezioso in vista di un’interminabile cammino che conduca verso il compimento. È lui che, anche quando ci sentiamo smarriti, non cessa di vegliare, rammentandoci che siamo “Fatti per l’infinito”. Quel seme di inquietudine con cui siamo nati risulta pregevole al pari del termine Creatura. Oggi passato di moda, questo vocabolo ci ricorda che intimamente apparteniamo all’Onnipotente, non ci siamo fatti da noi e quindi non possiamo concepirci come artefici esclusivi del nostro destino.

La consapevolezza creaturale svela la natura relazionale dell’uomo e questo implica necessariamente il riferimento a Qualcun Altro. Ci costituisce una dipendenza ontologica ed originaria dal Creatore, che ci chiama alla vita per entrare in rapporto con  lui cioè con la vita stessa. Questa relazionalità non solo non occulta, ma rivela la straordinaria grandezza dell’uomo vivente, in cui risplende la gloria di Dio stesso. Il peccato originale ha certo incrinato questo rapporto, ma non ha potuto annullarlo totalmente. Nella natura decaduta da stabile presenza il legame con l’Altissimo diviene   desiderio, struggente ed inappagata nostalgia di un’armonia perduta ma ancora possibile nell’orizzonte della ricerca. Sottrattisi alla relazione fontale con l’Onnipotente Adamo ed Eva hanno innescato le varie forme di idolatria che pullulano ancora ai nostri giorni. Si tratta di falsi infiniti spesso consistenti nell’assolutizzazione di un particolare in sé buono che diviene un feticcio. Non solo l’anima, ma ogni  fibra della carne umana è fatta per trovare pace in Cristo: poeticamente il  Salmo 63 ci conduce nel cuore di questo discorso “desidera te la mia carne in terra arida, assetata senz’acqua”.

Se tale anelito è negato l’uomo inizia una ricerca di idoli che possano appagarlo, anche per un fugace attimo. Un errare nelle più svariate direzioni che pone domande giuste ad interlocutori afasici. Così: la droga, la sessualità disordinata, le tecnologie totalizzanti, il successo a ogni costo divengono veri e propri vitelli d’oro da adorare. Il ”culto” idolatrico si rivela ben presto però assai diverso da quello autentico: l’idolo chiede, Dio dona; l’idolo schiavizza – pretendendo per se una venerazione  sempre più totalitaria – Dio libera purché si riconosca l’originaria dipendenza di cui abbiamo parlato. Per ritrovare se stessa la persona è quindi chiamata a un lungo cammino di purificazione del cuore e della mente che, condensato in un’immagine può essere descritto come un passaggio da schiava a figlia.

Occorre convertire il cuore sradicando da lui i falsi infiniti e la mente che, riconoscendosi come creatura, ripristina  le condizioni per una vita libera. Per illustrare un simile esodo Ratzinger trae direttamente dalla” Lettera ai Romani” una notazione che getta un fascio di luce sull’intero viaggio: San Paolo individua il contrario della schiavitù non tanto nella libertà, quanto nella figliolanza. Come figli, infatti, Noi abbiamo ricevuto lo Spirito santo: esiste, quindi un giogo cattivo, che il peccato indirizza verso l’idolo, ma ne esiste anche uno buono tanto che lo stesso apostolo delle genti si definisce servo di cristo. Non occorre eliminare la dipendenza che umanamente ci costituisce, ma indirizzarla verso colui che solo può farci liberi.

Nel Cristianesimo l’infinito, per rendersi sperimentabile ha assunto una natura finita colmando l’incolmabile distanza tra noi e lui. Il cuore della rivelazione trasforma la strutturale impossibilità dell’uomo di  soddisfare l’anelito verso l’illimitato che lasciato il suo cielo si è immerso nella finitezza creaturale. Per questo, come ha sottolineato  più volte il Servo di Dio Luigi Giussani, occorre scoprire la vita come vocazione. Persone, circostanze, difficoltà sono altrettante occasioni di rapportarci all’infinito, in un orizzonte entro cui egli chiama alcuni a vivere totalmente di lui, richiamando così tutti a riconoscere l’essenza della propria natura di esseri umani.

Solo in Dio, vi è autentica libertà che è frutto dello  Spirito e del dimorare nella Parola. Questa è la terza strada per attingere l’infinito: occorre che la Chiesa, intesa come una compagnia sempre da riformare, si sottoponga a un serio esame di coscienza. Un processo di Ablatio che rimuova le incrostazioni storiche e  gli apparati burocratici lasciando trasparire il suo volto autentico. Una riforma comunitaria, certo, ma anche un esame cui ogni singolo cristiano è chiamato in prima persona, rifuggendo il rischio dell’attivismo. Chi è prigioniero di tale mentalità infatti  ritiene di avere sia il coraggio sia l’intelligenza necessarie a riformare la Chiesa che nella sua interna costituzione non ha ancora integrato il patrimonio delle libertà illuministiche riconosciute in ambito politico: in un simile paradigma siamo noi che facciamo la Chiesa proprio come avviene nelle società democratiche in cui sono le maggioranze a produrre il processo decisionale.

Occorre quindi  uscire dal paternalismo in cui le decisioni sono calate dall’alto, per entrare in una Chiesa comunità, finalmente nostra. Questa mentalità però rischia di smarrire il senso del mistero, rinserrandosi nelle sue costruzioni  e così ottundendo l’accesso alla vera libertà. Se nella vita delle assemblee dei credenti  riduciamo l’ambito delle cose decise da noi, si dilaterà progressivamente quello del inaudito, di ciò che, venendo a noi come dono, ci precede. Lo stupore nega la limitazione cioè quella mentalità in cui, proprio perché il fare precede il credere e il rimanere, ci si trova imprigionati in un mondo di oggetti che volendo trasformare persone e cose si preclude in radice la possibilità di  accogliere, contemplare ammirare.

Tutto questo deriva, secondo Ratzinger, da un fraintendimento della natura stessa della Chiesa che non è , nella sua essenza, una democrazia. Ancora una volta questi concetti cruciali sono chiariti da un’immagine tratta dalla tradizione cattolica: San Bonaventura vede nello scultore non tanto un’artista che fa qualcosa, quanto colui che è chiamato a togliere l’impuro, e il superfluo per lasciar emergere dall’anonimo blocco di pietra la forma nobile della statua. Egli riporta alla luce l’immagine guida celata nel marmo: è quella della sposa che per andare incontro allo sposo deve essere liberata. In questa figura troviamo  anche il modello per la riforma della Chiesa: le istituzioni  non sono in se cattive ma appaiono semplicemente necessarie. Rischiano però di invecchiare ostendendo se medesime  come essenziali e contribuendo così a celare la  luce che viene dall’alto. Solo dalla Ablatio – cioè da questo togliere rigenerante – può nascere la congregatio: un’assemblea in cui l’io non è più contrapposto a un altro io per imporre la sua idea di chiesa, ma entrambi, ricevono dal polimorfe soffio dello spirito quella forza vivificante che consente, sempre di nuovo, di riandare al potere liberante del Verbo.

Questa stessa dinamica è capace di rinnovare anche la vita personale nella cui sfera l’Ablatio diviene perdono: noi tendiamo a vedere in ogni uomo l’immagine di Adamo, fatto decadere dal peccato. Per questo anche noi abbiamo bisogno di uno scultore che rimetta le colpe. Nella storia della nascente comunità cristiana la consegna delle chiavi a Pietro, l’ultima cena, la prima apparizione del Risorto agli 11 discepoli rappresentano tre momenti sorgivi in cui, l’assemblea dei fedeli vive della grazia del perdono. Non si tratta tanto di  fare come se ciò che ci ha ferito non fosse accaduto, ma di intraprendere un doloroso  percorso di guarigione e di cambiamento che coinvolga entrambe le parti in causa.

In questo orizzonte perdono e penitenza, attività e passività non solo non sono in contraddizione ma plasmano, in un inscindibile dittico, l’intera esistenza umana. Tutto il nostro fare dipende da un originario essere stati creati: l’attività deriva da una primigenia passività, perché la potente parola creatrice di Dio opera una trasformazione che però non cancella completamente l’esperienza della colpa. La Chiesa non è una comunità di coloro che non hanno bisogno del medico, ma una famiglia di peccatori convertiti che  perdonano perché, a loro volta, sono stati perdonati. Se questa dimensione viene obliata assistiamo anche a rilevanti effetti dal punto di vista etico. Oggi non si tende tanto a valorizzare l’esperienza della riconciliazione  quanto un’illusoria autoliberazione dell’uomo dalla colpa. Ma dio non chiama coloro che si sono affrancati da se: per questo occorre non spezzare la circolarità tra morale espiazione e perdono.

Nella Torah questi tre elementi sono tanto inscindibilmente connessi che non si può, come avrebbero voluto fare gli illuministi, conservare solo una legge morale sempre valida, abbandonando il resto – il perdono e l’espiazione – alla storia passata. A questa visione ecclesiologica si oppone il già citato atteggiamento dell’attivista secondo cui siamo noi a fare una Chiesa sempre nuova che sorge attraverso accordi, discussioni, decisioni a maggioranza.

In questa atmosfera si coniano nuove formule di fede abbreviate e la stessa  liturgia deve essere espressione della comunità che la celebra. In tal modo però la  Chiesa si trasforma impropriamente in una comunità meramente umana che si limita all’empirico, allo sperimentabile. Tutto ciò che gli uomini fanno può essere annullato da altri: ciò che una maggioranza decide può essere abrogato da un altra maggioranza. Nella Chiesa fatta da se l’opinione sostituisce la fede: all’illuminato che crede di introdurre nell’Assemblea dei credenti  lo spirito del tempo occorre rammentare proprio l’angustia di questa dimensione.

A essere totalmente trascurata, infatti è l’originaria passività della fede: è naturalmente necessario intenderci sul valore delle parole: passività,  qui non significa mera ricettività anonima o impersonalità; vuol – al contrario – dire apertura al dono dell’essere creati. Appare interessante notare come nelle professioni di fede coniate dal basso in area tedesca, il termine noi crediamo è usato opinativamente: ci sembra che, pensiamo che. Al contrario, la fede ortodossa concepisce l’io credo come un dato originariamente ricevuto in dono, ma, proprio per questo emblematico di una saldezza capace di costruire la casa fondata sulla roccia.

Solo  la fede squarcia la frontiera tra terra e cielo facendoci abitare l’orizzonte dell’eterno in cui una Chiesa più divina si riscoprirà anche più umana. Contro una comunità credente che invece si riduca nella sfera del fattibile si levano da parte dell’uomo moderno vibranti proteste. Da lei, infatti, ci si attende di più rispetto ad altre istituzioni e, essendo queste aspettative spesso deluse, si tende ad abbandonarla.

Per contrastare un simile atteggiamento occorre lavorare affinché la comunità dei credenti si percepisca sempre più come una compagnia in perenne riforma di cui l’uomo ha bisogno per squarciare la frontiera dell’ empirico, accedendo a quell’oltre che solo può appagare la sua fame di giustizia. Un accesso che, anche se come nicodemo non siamo più giovani ci farà tornare bambini, felicemente paghi di una originaria dipendenza e i bambini “ai bambini brillano gli occhi attirati dall’onda del mare, da un gabbiano che sfreccia nel cielo, soprattutto dal volto del padre e della madre”. Perché da grandi non è più così? I dolori, le prove della vita rendono spesso gli occhi spenti, rassegnati.

Così è la vita si dice. Amara constatazione nella quale si cela la domanda di Nicodemo: come può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio? “occorre rinascere dall’alto” gli risponde Gesù. “Tu lo sai bene non ti riesce qualcosa, sei stanco e non ce la fai più e d’un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno, uno sguardo umano  ed è come se ti fossi accostato a un divino nascosto. Allora gli occhi tornano a brillare,  come quelli dell’amata quando arriva l’amato”.

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