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“L’antimafia si fa, poi eventualmente si proclama” – Intervista ad Augusto Cavadi

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Il trentennale dall’uccisione di don Pino Puglisi mostra quanto sia attuale la lezione del suo martirio. La società siciliana è ancora abitata da problematiche sistemiche assai simili a quelle a cui si oppose il sacerdote palermitano dichiarato beato dalla Chiesa cattolica nel 2013. Dell’attualità del messaggio di Padre Puglisi parliamo con Augusto Cavadi. Filosofo, co-fondatore della “Scuola di formazione etico-politica G. Falcone” e co-direttore della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo, Cavadi ha da poco pubblicato insieme a Cosimo Scordato il volume – edito dalla casa editrice “Il pozzo di Giacobbe” – Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce per disperazione.

– Professore Cavadi il martirio di Puglisi ci testimonia che fra mafia e vangelo ci sia assoluta incompatibilità. Eppure, il percorso verso la consapevolezza della pericolosità del fenomeno mafioso che la Chiesa siciliana ha sviluppato nel secolo scorso è stato lungo e contraddistinto da zone in chiaroscuro. Quali sono le principali motivazioni di questo fenomeno?

Ci sono state ragioni di vario ordine: sociale, politico, teologico. Il mio amico don Francesco Michele Stabile ha insistito, anche recentemente nel suo grosso volume La Chiesa sotto accusa, sulle motivazioni di ordine sociale (il prete che resta, sostanzialmente, nell’ambito della famiglia di origine) e politico (la Chiesa che vive lo Stato liberale prima, lo Stato fascista poi, il pericolo social-comunista infine come avversari più pericolosi della mafia così da preferire una certa neutralità quando la mafia si oppone ad altre istituzioni, come ad esempio ai partiti e ai sindacati di sinistra).

Personalmente mi sono più interessato alle motivazioni teologiche, esposte soprattutto nel mio Il Dio dei mafiosi. Detto troppo sinteticamente, la Chiesa ha faticato nel riconoscere come organizzazione anti-evangelica un’organizzazione come Cosa nostra che ne mimava simboli, linguaggi, riti, norme di morale privata, parole d’ordine, metafore e così via. Sono convinto che una Chiesa riconvertita all’essenzialità del vangelo originario apparirebbe agli occhi dei mafiosi molto meno appetibile, molto meno imitabile.

Non ci sarebbe bisogno di scomunicarli: se ne starebbero essi stessi lontani da una Chiesa in cui ci fosse più fraternità, più sobrietà nell’uso del denaro, più libertà di parola, più partecipazione popolare alle decisioni che riguardano tutti.

– Se il processo di consapevolezza ecclesiale dinanzi alla questione criminalità organizzata è stato problematico allo stesso modo la società siciliana ha a lungo accettato come parte del sistema la presenza della mafia. Quanto è importante la maturazione di una cittadinanza attiva e responsabile per arginare il fenomeno mafioso?

Il mondo cattolico è un sotto-insieme della società complessiva. Esso non si è comportato in maniera né peggiore né migliore dell’intero di cui è parte. Il compito di un’educazione civica integrale spetta dunque sia al microcosmo cattolico (sempre più micro) e al macrocosmo siciliano (anzi, direi italiano ed europeo). Non è però un compito facile: coinvolge il piano intellettuale, ma anche quello sentimentale.

E il sentimento altrui, soprattutto giovanile, lo si sveglia solo con l’esempio costante. Penso che ciascuno di noi – compreso me e Lei – non può essere soddisfatto del modello etico che offre a figli e alunni: di come ci atteggiamo nei confronti delle guerre, dei flussi migratori, dell’ambiente, della qualità della vita degli altri animali… Si resta quasi schiacciati da tanta follia imperante.

Una volta si poteva contare sulla forza dei partiti e dei sindacati per sperare di realizzare ciò che non si poteva da individui isolati: adesso questa fiducia nelle grandi organizzazioni è, comprensibilmente, scemata. Papa Francesco sta tentando disperatamente di mostrare come la Chiesa cattolica potrebbe esercitare tale ruolo profetico e pedagogico, politico in senso alto: ma quanti lo seguono in questa direzione di marcia? Nel migliore dei casi, lo si accusa di ‘orizzontalismo’; nel peggiore, di minacciare lo status quo mondiale dove pochi miliardari, in pochi Stati, gestiscono la quasi totalità delle risorse materiali dell’umanità.

– Nel libro Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce per disperazione, lei propone un percorso di formazione alla legalità integrale. Di che si tratta?

Si tratta di una serie di iniziative concrete che le comunità ecclesiali potrebbero mettere in atto per fare la loro parte, inserendo la formazione civica all’interno di tutti i processi catechetici (dalla preparazione alla prima comunione sino alla preparazione al matrimonio sacramentale). Il filo rosso che seguo non è particolarmente originale, riprende la lezione di don Lorenzo Milani.

Poiché è una lezione trascurata, il mio appello può suonare innovativo. Infatti sostengo che tutte le agenzie educative, dunque anche le comunità religiose cristiane e non cristiane operanti in Italia, dovrebbero informare i fedeli delle norme vigenti; spiegare la necessità morale di rispettare tali norme quando esse sono costituzionali e di disobbedire quando in coscienza le si ritiene incostituzionali; soprattutto impegnarsi, attraverso tutti gli strumenti previsti in un regime democratico, per modificare le norme ritenute immorali, ingiuste. Questo impegno a rendere sempre più ‘giusta’ la ‘legalità’ si chiama politica.

– La città di Palermo, a trent’anni alla morte di Puglisi, quale aspetto della profezia di 3P dovrebbe tenere in maggiore considerazione?

Soprattutto due aspetti. Il primo: l’antimafia si fa, poi eventualmente si proclama. Troppo spesso avviene che prima la sia proclama, poi – in tempi ritardati e in modalità monche – la sia pratica. Succede anche di peggio (come dimostrano le vicende giudiziarie di politici, imprenditori, pubblici funzionari): ci si autonomina paladini dell’antimafia per avere visibilità pubblica e, perfino, denaro e potere.

Per parafrasare ancora una volta don Milani, pochi servono la causa della lotta al sistema mafioso, molti se ne servono. Un secondo aspetto è che la criminalità organizzata non si combatte con la legalità democratica disorganizzata. Le cosche sanno coordinarsi, anche rinunziando a piccoli vantaggi in vista dell’obiettivo comune; istituzioni e soprattutto associazioni che vorrebbero contrastare il dominio della mafia sono incapaci, mediamente, di collaborare.

La ragione principale è nella ossessiva ricerca di protagonismo cui ho fatto appena cenno: ogni gruppetto anti-mafia vuole essere in prima fila ai cortei, sulle prime pagine dei quotidiani, possibilmente in cima all’elenco dei destinatari di finanziamenti pubblici. Se qualche altro gruppetto – o qualche altro personaggio – gli fa, con più o meno merito, ombra, scatta la polemica e, se si può, la scomunica.

Don Puglisi, milite ignoto dell’antimafia, proprio perché gli stava a cuore il bene comune, cercava la collaborazione di tutti: dal comitato condominiale di via Azon all’amministrazione comunale. Chi non ha ambizioni individuali può farsi lievito nella pasta. E scomparirvi.

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