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“L’azione sociale di Puglisi nasce dall’amore per il vangelo” – Intervista a Vincenzo Ceruso

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Il 15 settembre del 1993 veniva ucciso a Palermo, per mano mafiosa, il sacerdote Giuseppe Puglisi proclamato beato dalla Chiesa cattolica nel maggio del 2013. Il trentennale dalla sua morte è un’occasione per riflettere sul significato della sua testimonianza. Dell’attualità del martirio del prete di Brancaccio ne parliamo con Vincenzo Ceruso. Esponente della Comunità di Sant’Egidio, Ceruso è Segretario della Consulta diocesana delle Aggregazioni laicali e membro dell’Equipe sinodale dell’arcidiocesi di Palermo. La casa editrice San Paolo ha da poco ristampato il suo volume Don Puglisi. A mani nude.

– Dai racconti dei testimoni che lo hanno conosciuto, emerge che nella sua opera pastorale don Puglisi scelse i poveri a causa del Vangelo. Puglisi non fu soltanto un operatore sociale o un “prete antimafia” poiché la sua attività è incomprensibile senza il riferimento a Cristo. Concorda

Sono d’accordo. Non solo il riferimento a Cristo è fondamentale, ma nella visione di Puglisi non esiste alcuna separazione tra spirituale e sociale, che è sempre una separazione artificiale. Una spiritualità che non abbia ricadute sulla società forse si può dare, ma non è una spiritualità autenticamente cristiana.

E Puglisi è prima di tutto un cristiano amante delle Scritture, attraverso cui ha imparato a decifrare la storia e guardando alla storia come al campo in cui i discepoli di Gesù sono chiamati a vivere la loro fede. La sua azione sociale nasce dall’amore per il vangelo, dal mettere al centro la persona così com’è. E poi Puglisi fu innanzitutto un prete. E ogni prete che sia tale, direi ogni cristiano che sia tale, non può non essere contro la mafia.

– Don Puglisi pare aver concretizzato quella relazione positiva fra Chiesa e mondo di cui il Concilio Vaticano II ha tracciato le linee fondamentali. In tal senso, Puglisi può essere definito come figlio e interprete del Vaticano II?

Uno storico, Angelo Romano, ha scritto che Puglisi vive il 68 attraverso il Concilio. Sono molto d’accordo. Aggiungo il Belice, la prossimità ai terremotati della Valle del Belice, che fu un grande dramma siciliano e nazionale in quegli anni e che costituì forse un vero spartiacque nel suo percorso esistenziale.

Come farsi vicino a qualcuno che ha perso tutto? Come farsi prossimo dell’uomo mezzo morto? È la domanda della parabola del Buon Samaritano, autentico paradigma della spiritualità conciliare. Puglisi raccoglie il desiderio dei Padri conciliari di una Chiesa che guardi al mondo uscito dal regime di cristianità senza giudicarlo, né tantomeno condannarlo, ma adoperando la medicina della misericordia, secondo l’espressione giovannea.

Egli incarna il prologo della Gaudium et Spes, la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».

– Ad Agrigento, nel suo celebre monito sulla mafia, Giovanni Paolo II oppose alla cultura della morte generata dalla criminalità organizzata, la cultura della vita del Vangelo. Quali erano le caratteristiche fondamentali della cultura della vita annunciata da Puglisi?

La prima caratteristica è che per Puglisi non esistono vite di scarto. Il suo è un umanesimo integrale, in cui confluiscono le componenti più diverse, senza sovrapporsi, perché la sua bussola sono le Scritture e la passione per la storia di ogni uomo e ogni donna.

Egli si accosta alla fragilità umana con dolcezza e intelligenza. Sa scoprire quel bene che nasce laddove la vita è ferita, per usare un’espressione del gesuita Emanuele Iula. L’amicizia – che con bellissima espressione Puglisi chiama “la vittoria non episodica sulla solitudine” -, la fraternità, una visione solidale della città, nascono in lui da questa cultura della vita. La seconda caratteristica è la gratuità.

Per i mafiosi tutto si compra e tutto si vende. Non esiste nulla che sia gratuito e, in particolare, ogni uomo ha un prezzo. Non è un aspetto originale dei mafiosi, ovviamente, anzi, è uno degli addentellati che rendono facile per l’organizzazione criminale attecchire nella società moderna, ipercompetitiva. Ma per la mentalità mafiosa, che si basa sullo scambio dei favori e sull’appartenenza tribale, la gratuità ha un valore sovversivo.

Nel Centro Padre Nostro voluto da padre Puglisi tutto era gratis e non era richiesto nemmeno quel minimo di contraccambio clientelare che era il voto di scambio, alla base di tante attività pseudo assistenziali. Aggiungerei infine la forza del noi. Per Puglisi nessuno si salva da solo e nessuno dev’essere lasciato indietro.

– Perché nel suo ministero presbiterale, Puglisi poneva sempre al centro i giovani e le questioni connesse alle loro difficoltà?

Non solo le loro difficoltà. Puglisi partiva dalla loro ricerca di senso, dai loro sogni e dal loro desiderio di libertà. E non forniva ricette astratte. Li ascoltava, li prendeva sul serio e condivideva con loro il tesoro prezioso della sua stessa vita: il Vangelo e i poveri.

Accompagnava per mano i suoi giovani amici alla scoperta delle ferite degli altri. Chi lo seguiva, scopriva che vi poteva essere più gioia nel dare che nel ricevere. Una sua frase che viene ricordata spesso – “Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto” – significa anche che ciascuno può fare qualcosa, che non esiste nessuno di irrilevante e che non sei troppo giovane, o troppo debole, per dare una mano a cambiare il mondo.

E poi penso che Puglisi, come Gesù, semplicemente amasse i giovani per la loro inquietudine, la loro capacità di incuriosirsi, di porre domande radicali: “Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi»” (Mc. 10, 21).

– Quale insegnamento trarre fuori dal ricordo del martirio di Puglisi in vista dei lavori del Sinodo della Chiesa universale ancora in corso?

La memoria di Puglisi ha attraversato il lavoro di tutti i cantieri sinodali nella Chiesa di Palermo. Un cantiere, in particolare, quello prettamente diocesano, è stato ispirato dalla passione educativa di padre Puglisi. Ma il sangue del martire palermitano è eloquente per tutta la Chiesa universale.

Ci dice che la forza debole del vangelo può resistere al male nelle condizioni più difficili e che la Chiesa, anche in una società che si vuole secolarizzata come quella contemporanea, può essere attrattiva per tanti, se sa ripartire dai più poveri, da un linguaggio non clericale e dall’entusiasmo per il vangelo.

– A Palermo, presso la Facoltà Teologica di Sicilia, il prossimo 2 ottobre è previsto un incontro di riflessione su don Pino Puglisi e Fratel Biagio Conte. Quale correlazione c’è fra la testimonianza di queste due figure?

Don Pino e Fratel Biagio si sono incontrati una sola volta, il 15 settembre 1993, poche ore prima che Puglisi andasse incontro ai suoi assassini. Biagio ricordava con gratitudine questo incontro. Entrambi sono stati due costruttori di comunità, hanno saputo ridare entusiasmo ad una Chiesa e ad una società civile che venivano dalle stragi del 92.

Entrambi hanno mostrato il volto di un Dio che vive nella città, accanto agli uomini e alle donne, in particolare ai più sofferenti. Ci confronteremo su questo e molto altro con il Vescovo Corrado, con don Pino Vitrano e con Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio.

L’incontro che si terrà il due ottobre alle 17:00, presso la Facoltà teologica di Sicilia, si intitola Il Vangelo nella città: Padre Puglisi e Fratel Biagio.

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