La salvezza consiste nell’incontro con Dio “per, con e in” Cristo Gesù – Lectio Divina XXVIII domenica del tempo ordinario (anno C)

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Riflessione di don Massimo Naro sulla liturgia della Parola nella XXVIII domenica del tempo ordinario (anno C)

2Re 5,14-17; Sal 97/98; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

In cosa consiste la nostra salvezza, quella vera? Come essa si compie per noi? Quando possiamo davvero sperimentarla? Sono gli interrogativi che distilliamo dai brani biblici proclamati e ascoltati nella celebrazione eucaristica di questa domenica. Ai quali la stessa liturgia della Parola, nel suo complesso, dà risposta.

A partire dalla pagina evangelica, dove traspare innanzitutto una fondamentale verità di fatto: la salvezza voluta e operata da Dio non esclude nessuno, giacché tutti ne abbiamo impellente e vitale bisogno, essendo tutti accomunati dall’umana debolezza e da una mortale infermità, esistenziale più che fisica.

Dieci lebbrosi, dunque, vanno incontro al Maestro di Nazareth, mentre egli visita i villaggi e le città del nord della Palestina, tra la Samaria e la Galilea. Non è riferito cosa e chi fossero stati prima di contrarre la terribile malattia. Probabilmente persone di varia estrazione sociale e culturale, ma anche di diversa confessione religiosa. Forse qualche pover’uomo, ma pure qualche ex notabile, persino qualche alto ufficiale della guardia di Erode, come già Naamàn, il generale arameo di cui si parla nella prima lettura, che era stato guarito dalla lebbra molti secoli prima, al tempo del profeta Eliseo.

Tra quei dieci anche un samaritano, una sorta di eretico per i giudei di quell’epoca. La “causa” della sua lebbra poteva esser stata, secondo la mentalità di allora, proprio la sua particolare maniera di intendere e di adorare Adonai, a prescindere dal Tempio di Gerusalemme e dai riti lì celebrati dai sacerdoti. La lebbra, del resto, era una malattia gravata da una pesante ipoteca simbolica, che costringeva chi la contraeva a restare ai margini della società, additato da tutti come indegno di stare con gli altri. E in un ambiente in cui la religiosità era il principale ancoraggio sociale, essere conosciuto come un noto peccatore, o come un eretico, aveva gli stessi effetti pubblici della lebbra. I lebbrosi erano ostracizzati ed esecrati, non solo per una ragione sanitaria ma anche per un pregiudizio religioso. Era questo il motivo per cui restava vietato entrare in contatto con loro, pena il dover sottomettersi a una vergognosa quarantena – fatta di diffidenza, rifiuto, isolamento –, come sembra sia successo a Gesù stesso, una volta che aveva “toccato” un lebbroso nelle campagne della Galilea (cf. Mc 1,40-45). Essere lebbrosi era più mortificante di avere la lebbra: significava essere reietti, scartati, esclusi, non solo per il morbo in se stesso, ma anche per le presunte cause morali e spirituali per le quali il lebbroso s’era ammalato. I lebbrosi erano considerati “impuri” e la loro guarigione sarebbe consistita – se mai fosse avvenuta – nella catarsi interiore oltre che esteriore. Non a caso la voce verbale che ricorre sia nel testo greco di Luca riguardo ai dieci lebbrosi sia – in riferimento a Naamàn – nella traduzione greca di 2Re 5,14 fatta dai Settanta saggi di Alessandria, è katharízō.

Ecco perché Gesù intima a quei dieci lebbrosi, che invocano il suo aiuto, di andare dai sacerdoti e non dai medici: la loro guarigione sarebbe coincisa con la loro riabilitazione religiosa, con il loro ristabilito diritto di entrare nel Tempio. Ed è per questo che il lebbroso samaritano, vedendosi integralmente guarito (qui la voce verbale greca è iáomai), torna da Gesù, «a rendere gloria a Dio»: per le sue convinzioni di sempre quel samaritano non reputa di dover far capo al Tempio di Gerusalemme e ciò lo spinge a riconoscere Gesù quale tempio vivente di Dio.

È a questo punto che emerge la portata olistica della salvezza: essa non comporta soltanto la guarigione fisica e nemmeno la riabilitazione religiosa o la reintegrazione sociale. La salvezza si compie (raggiunge la sua pienezza) allorché si realizza come conversione al Cristo. «Tornare indietro», espressione che ricorre ben due volte per descrivere il comportamento del samaritano nei confronti di Gesù, non per niente è, nel testo greco dell’odierna pagina evangelica, hypostréphein (o hypostrépsein), voce verbale che rievoca la epistrophḗ, cioè uno dei due modi neotestamentari per dire conversione (l’altro è metánoia).

La conversione induce a «ringraziare» (qui eucharistéō) Gesù. E ringraziare Gesù equivale ormai a «rendere gloria a Dio». Vale a dire che la salvezza è la grazia di poter rientrare in rapporto con Dio, incontrandolo non più esclusivamente nel Tempio o passando obbligatoriamente attraverso l’antico sacerdozio, bensì tornando indietro, convertendosi a Gesù, per ritrovare – in lui – il Signore. La salvezza non è più un’azione rituale – peraltro delegata ad altri –, ma una relazione personale con Cristo, tramite Cristo, in Cristo. Difatti, la pagina evangelica culmina con la frase rivolta da Gesù al samaritano: «La tua fede ti ha salvato». La salvezza consiste appunto, per quel samaritano risanato, in una radicale assunzione di responsabilità credente, ossia nel ricondursi al Cristo, nel rapporto di totale affidamento di sé a lui. È nell’orizzonte di tale confidenza col Signore che avviene la salvezza. È nell’amicizia con lui, associandosi al suo destino, che si fruisce della sua grazia pasquale, passando assieme a lui dalla morte alla vita nuova. Il comando conclusivo, che Gesù dà al samaritano «salvato» (e qui la voce verbale è finalmente sōzein, salvare), non per niente suona come un annuncio pasquale: «Alzati e vai». Alzarsi è, nell’originale greco del testo lucano, anístēmi/anístamai, da cui il sostantivo anástasis, cioè risurrezione.

Anche noi dobbiamo ricordarci dell’importanza, per la nostra salvezza, di Cristo Gesù, «risorto dai morti», come dice Paolo nella seconda lettura di oggi, poiché questa è la nostra fede: «Se moriamo con lui, con lui vivremo».

2 replies on “La salvezza consiste nell’incontro con Dio “per, con e in” Cristo Gesù – Lectio Divina XXVIII domenica del tempo ordinario (anno C)”

  • «Se moriamo con lui, con lui vivremo». Forse per rendere più credibile tutto il discorso dell’essere “guariti” nel senso ordinario di “tirato dai guai”, bisognerebbe approfondire nel concreto il significato di morte e vita /moriamo con lui, con lui vivremo. Spesso la gente che ascolta, che pure è immersa nella vita ordinaria e nei guai ke magari se li è cercati, risponde con una tirata di spalle. E dunque tutto appare come farsa a cui far finta di credere. E il discorso “sublime” viene ammainato con una tirata di spalle. Ecco perché la predica efficace resta quella di colui che, in prima persona, parla poco, ma si sporca le mani.

  • Ancora una volta, come sempre accade con don Massimo Naro, ci viene offerta una “visione” della Parola che va “oltre” per diventare il nostro vissuto. Grazie.

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