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La difficile laicità

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di Giuseppe Savagnone

 

    L’ondata di manifestazioni contro le vignette di «Charlie Ebdo», che in questi giorni ha scosso il mondo islamico – dalla Cecenia (un milione in piazza) alla Nigeria (settanta chiese cristiane distrutte), dal Pakistan all’Algeria – , è stata la risposta a quelle che, in Occidente,  avevano  visto masse altrettanto imponenti stringersi intorno alle vittime della strage di Parigi. Lo spettro dello “scontro di civiltà”, di cui aveva parlato in un suo libro il politologo Huntington, e che era stato evocato all’indomani dell’11 settembre, ritorna a profilarsi minaccioso sul futuro del nostro pianeta. 

Ma, a ben vedere, non si tratta piuttosto di una “scontro di inciviltà”?  Non sono gli aspetti più oscuri e più distruttivi del mondo occidentale e di quello islamico a far precipitare le legittime differenze in devastante violenza reciproca?

Se così è veramente, superare l’attuale vicolo cieco è possibile senza che nessuno debba rinunziare alla propria identità. E’ su questa strada che bisogna  procedere. Ma ciò comporta la conquista, dall’una e dall’altra parte, di una vera laicità.

 

So bene che le persone che nei giorni scorsi hanno scandito a gran voce lo slogan «Je suis Charlie» erano e sono convinte di averlo fatto proprio in difesa di questo valore. E che sono in molti, in Occidente, a credere che sia il mondo musulmano a doversi, in questo adeguare alla nostra cultura laica. Ma è proprio vero che quella rappresentata dal giornale satirico francese – e a cui è andata l’appassionata adesione della nostra opinione pubblica (5 milioni di copie vendute, nella prima edizione all’indomani della strage) – sia la vera laicità?

Ho ripreso in mano, in questa occasione, un libretto che avevo pubblicato qualche anno fa proprio su questo tema (si intitola, appunto, «Dibattito sulla laicità»). Davanti alla varietà di significati attribuiti a questo termine, proponevo di assumerlo nel significato che  esso ha avuto originariamente, quando è stato coniato, nella tradizione cristiana (fino al Concilio Vaticano II incluso), per indicare quei fedeli che non hanno né l’ordine sacerdotale né lo status di monaci. In questo senso, laico è colui che è consapevole di non essere e di non avere quello che altri sono e hanno. Un uso che riscontriamo ancora attuale anche in ambito civile, quando, per esempio, nel Consiglio superiore della magistratura, si distinguono i membri “togati”, che sono magistrati, da quelli “laici”, la cui sola qualifica è di non essere tali.

Questa definizione può sembrare, a prima vista, molto riduttiva, ma è, in realtà, ricca di significato. Perché allora è laico chi, sapendo di non essere e non avere tutto, è cosciente dei propri limiti e si rende conto che altri sono e possiedono ciò che a lui manca. Laicità significa, in questo senso, apertura all’altro, al diverso, e non per mera tolleranza, ma in un sincero sforzo di ascolto e di ricerca, per riceverne qualcosa.  Essa è la scoperta che la linea di confine che ci distingue da chi è diverso da noi non è una barriera difensiva, per tutelare ciò che abbiamo (come se fosse la totalità del vero e del giusto), ma il luogo di un appuntamento con chi può offrirci ciò che non abbiamo. Il frutto della vera laicità è il rispetto profondo dell’altro proprio perché altro e lo sforzo del dialogo, per imparare da lui qualcosa che noi non sappiamo.

Se proviamo a confrontare questo concetto di laicità con lo scenario di cui siamo oggi testimoni, ci accorgiamo subito dell’enorme distanza che li separa. Ciò è evidente nel caso del fondamentalismo religioso, sia esso quello islamico, di cui oggi soprattutto si parla, sia quello di altre religioni (ce n’è anche uno cristiano, uno indù, etc.). Il fondamentalista pensa di avere dalla sua tutta la verità e tutto il giusto, perché crede che la sua immagine di Dio coincida perfettamente con l’unico Dio effettivamente esistente. Chi sta fuori di questo orizzonte è dalla parte di Satana e va combattuto, appunto, in nome di Dio.

Ma anche la pretesa “laicità” dell’Europa ha ben poco a che fare con ciò che ho cercato di additare come un plausibile significato  di questo termine. Lascio da parte casi di evidente cecità e fanatismo nei confronti del “diverso”, come quello della Lega Nord in Italia o di certi movimenti di estrema destra nel resto del continente. Il punto è che anche i raffinati intellettuali occidentali, che spesso si vantano di non aderire a nessuna verità assoluta – «ognuno ha la sua!», si ama ripetere – , non sono forse cosi laici come credono. Perché affermare che ognuno ha la sua verità significa, in fondo, non avere nulla di diverso dalla propria opinione da cercare, da ascoltare, da scoprire. Solo se la verità è qualcosa che sta sempre “oltre” il nostro punto di vista soggettivo, ha senso dialogare con chi di essa forse vede un altro aspetto, che a noi sfugge. Solo allora ha senso prendere sul serio il “suo” punto di vista e usare la nostra libertà non per deriderlo, ma per capirlo e arricchircene.

Se tutto ciò ha un senso, la libertà di espressione può e deve essere limitata non a colpi di censura, ma da una cultura – diversa da quella in cui siamo immersi – che valorizzi la ricerca comune  e dunque il confronto rispettoso, a partire dal senso dei limiti delle rispettive posizioni. Esaltarla in modo unilaterale, come è stato fatto in questi giorni da noi europei,  significa assolutizzare il diritto di ciascuno di chiudersi nella “propria” verità e la sua incapacità di uscirne, per incontrarsi con quella parte di realtà che gli altri hanno da offrirgli.  

Reciprocamente, bisogna che il mondo islamico si renda conto che Allah non è un nome proprio, ma designa quel Dio che anche altri adorano con la loro stessa fede e su cui nessuno ha un diritto di proprietà. Come noi occidentali dobbiamo imparare che la laicità esige l’ammissione di una verità che non si riduca al nostro modo di vedere soggettivo,  essi devono riconoscere la  legittima diversità degli approcci ad essa da parte di altre religioni e degli stessi non credenti. È una strada difficile, ma  si può percorrere, col contributo di tutti. Se vogliamo davvero evitare lo “scontro di civiltà”.

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