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La crisi della paternità

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Recentemente sui quotidiani italiani ha trovato ampio spazio la notizia che in Belgio e in Francia si celebrano, a partire dal 2009, delle feste organizzate da associazioni di uomini che rifiutano programmaticamente di avere figli. Non si tratta di figure isolate, ma di un vero e proprio movimento. «Una minoranza, certo. Ma in continuo aumento» (Anais Ginori, su «La Repubblica» del 29 novembre 2012). Un dato eloquente: «Gli italiani non ancora padri a 35 anni sono passati dal 20% al 45% in poco meno di vent’anni» (ivi) e quasi la metà di essi rimane senza figli anche dopo i 50 anni.

Certo, da noi, come altrove, pesano molto anche fattori economici e sociali – primo fra tutti, il ritardo nel raggiungere una ragionevole sicurezza economica – , ma non si può trascurare un margine consistente dovuto all’ideologia della non-paternità. Le prese di posizione a questo livello sono numerose soprattutto in Francia e in Belgio. Lo scrittore belga Théophile de Giraud ha addirittura pubblicato un «Manifesto anti-natalista».

Il fenomeno, peraltro, non riguarda solo i padri: nel 2007 la psicoanalista Corinne Maier ha pubblicato un pamphlet intitolato No Kid, pubblicato anche in Italia, in cui esponeva «40 ragioni per non avere figli». Quelle citate più di frequente sono un pessimismo profondo e il diritto di disporre della propria vita senza intralci. «Per fare figli bisogna amare il mondo», osserva il filosofo francese Christian Godin. Se uno pensa, come de Giraud, che «l’unica vera disgrazia è essere venuti al mondo», è difficile che nutra questo amore. E, per quanto riguarda il secondo motivo, un altro intellettuale, Michel Onfray, interrogato sul perché non volesse figli, ha risposto semplicemente: «Ho di meglio da fare» (ivi).

Sono motivi che, dicevamo, in realtà sono alla base di una crisi generalizzata della natalità in tutto il mondo. I dati riportati da un giornalista del «New York Times» pubblicato sul già citato numero di «Repubblica», sono impressionanti: «Nel 1990, il 65 per cento degli americani disse che avere dei bambini era molto importante per il successo di un matrimonio. Oggi solo il 41 per cento dice di crederci». E commenta con una nota che potrebbe valere anche per l’Italia: «Ai nostri giorni, nelle case americane ci sono più cani che bambini» (ivi).

Ma non si tratta solo degli Stati Uniti. Il fenomeno si registra, forse ancora più evidentemente, in Europa: in Spagna «il totale delle nascite annue è oggi inferiore a quello che si registrava nel XVIII secolo. Il 30 per cento delle donne tedesche dice di non avere intenzione di aver figli». Perfino in America latina il problema si pone: «Il tasso di natalità in Brasile è calato da 4,3 figli per donna di 35 anni fa, agli 1,9 figli di oggi» (ivi).

Il problema però è più chiaramente avvertito dagli uomini. Nel loro caso, da sempre, il rapporto genitoriale è meno sentito che dalla donna a livello biologico, viscerale, e nasce in larga misura da una presa di coscienza, che comporta una maturazione personale e una specifica assunzione di responsabilità. Una cultura dominata, come la nostra, dal mito dell’individuo libero nella misura in cui non ha legami vincolanti, è più capace di far presa sugli uomini che sulle donne, strutturalmente più aperte alla relazionalità.

Ma davvero una vita senza legami è più felice? Certo, i figli sono fonte di grandi problemi e a volte anche di dolori; ma lo sono anche di grandi gioie. «Essere umani vuol dire questo», osserva Ferdinando Camon in un articolo su «La Stampa» (2 dicembre 2012) dove commenta il fenomeno di cui parliamo. E si chiede, con una domanda a cui mi associo, se proprio questo rifiuto di esporsi ai problemi e alle sofferenze non sia, per un uomo, la disgrazia più grande.

Giuseppe Savagnone

 

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