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“L’odore delle pecore”. Introduzione alla lectio divina su Gv 10, 27-30

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17 aprile 2016 – IV domenica del tempo di Pasqua

 

27 Le pecore mie ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono; 28 e io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. 29 Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può rapire dalla mano del Padre mio. 30 Io e il Padre siamo una cosa sola.

 

 

La liturgia domenicale prosegue la riflessione pasquale sul vangelo di Giovanni e stavolta ci propone appena quattro versetti, un piccolo medaglione giovanneo che rende bene la “semplicità complessa” di questo evangelista dallo stile profondo, aperto a molteplici livelli di interpretazione, talvolta anche ripetitivo, con versetti che, come le onde del mare (tutte simili, ma diverse), si infrangono in modo continuo contro gli scogli dell’incredulità di chi ascolta, aggiungendo ogni volta qualcosa di nuovo.

 

Anche qui in poche righe si ripetono concetti già visti (tutto il capitolo 10 è dedicato alla figura del pastore), ma qui ci si spinge ad affermare qualcosa di diverso e particolare, tanto che appena Gesù ha finito di esprimere quanto riportato dai versettii Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo”.

 

È importante cogliere il contesto in cui si colloca il brano, che è posto all’interno della sezione relativa alla festa della Dedicazione (in ebraico Hannukkah) che si teneva nel mese di Kisleu (dicembre) e che era stata istituita in tempi relativamente recenti (164 a.C.) da Giuda Maccabeo, dopo la profanazione del tempio di Gerusalemme ad opera di Antioco IV Epifane, il quale aveva installato nel tempio una statua di Giove olimpio, vietando agli ebrei la lettura della Torah, l’osservanza del sabato e della circoncisione.

 

Il senso della festa era, quindi, la celebrazione del ritorno alla centralità del tempio, luogo sacro che richiamava la presenza di Dio in mezzo al popolo. Al momento della riconferma del tempio (e, quindi, della memoria di tale riconferma), il re veniva osannato come figlio di Dio (Sal 2) e pastore di Israele (Sal 23), così creando una atmosfera generale dal sapore messianico.

 

Poco prima, la guarigione del cieco nato aveva messo tutti di fronte alla straordinarietà del Nazareno, il quale aveva diviso il suo uditorio tra coloro che lo ritenevano indemoniato e coloro che invece avevano abbassato le loro difese, aprendo il loro cuore al Signore. Lo stesso Gesù, aveva anche esplicitamente affermato di essere non solo la porta delle pecore, ma anche il buon pastore, immagine solitamente associata alla persona di Dio.

 

Tutto ciò non è, però, bastato ai giudei, i quali fremono. “Fino a quando terrai il nostro animo sospeso? (lett. Fino a quando ci togli la vita?) Se sei tu il Cristo dillo apertamente” (v.24). Essi chiedono parresia, franchezza, ma non sono disponibili ad ascoltare Colui che è di fronte a loro e che dunque non riconoscono.

 

Gesù risponde, infatti, che le opere di testimonianza ci sono già state, ma i giudei non vi hanno creduto perché essi non sono sue pecore. Non è, infatti, sufficiente che si “conoscano” le opere del Signore (i giudei erano sempre presenti ai segni di Gesù e conoscevano la sua dottrina), ma è piuttosto necessario che si riapproprino di quelle opere, le rileggano come opere rilevanti per una salvezza personale.

 

A questo punto si inserisce il brano domenicale, che indica, in polemica opposizione all’incredulità di Israele, chi sono le pecore del Buon Pastore, chi sono i discepoli di Gesù, chi i credenti in Dio.

 

Le pecore sono coloro che vivono una intimità spirituale con il Padre, fondata sull’ascolto e sulla sequela del Figlio. Non è mai troppo scontato ripetere che è l’ascolto della parola di Gesù che ci fa discepoli, che ci permette di avere il coraggio e la coscienza di essere pecore.

 

Si, coraggio di essere pecore, coraggio di coltivare nella nostra vita una relazione costante e continua con il Padre. Nella cultura che respiriamo essere additati come pecore suona come abdicazione alla originalità ed alla peculiarità di ogni individuo, rinuncia alla scelta di una strada. Queste considerazioni non appartengono alla cultura evangelica, dove essere pecore non suona offensivo, le pecore, il gregge sono il patrimonio, ciò che sta più a cuore al pastore e che gli garantisce sostentamento, è il centro degli interessi comuni.

 

Ma ciò che conta, per Giovanni, è il fondamento dell’essere pecore, il fondamento dell’essere pastore. Entrambi, pecore e pastore, vivono di relazione diuturna e costante con la Parola di Dio: Gesù pastore ascolta il Padre e conosce le pecore (dunque non solo il Padre, ma anche le pecore), le pecore ascoltano il Pastore e ne conoscono la voce. Non c’è pastore senza pecore e ben triste è la condizione delle pecore senza pastore.

 

Chiunque, pecora o pastore che sia, spezzi il legame di ascolto, conoscenza e sequela si trova fuori dalla possibilità di riconoscere l’altro e, in definitiva, se stesso.

 

Dalla capacità di tenere salda questa duplice relazione riconosciamo i veri o i falsi pastori, le vere o le false pecore.

 

Ha detto, in modo incisivo, Papa Francesco: “Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con l’ “odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini.

 

Da questo legame, da questa confidenza intima e salvifica con la Parola, nessuno, né pecore ne pastori, potrà essere rapito.

       

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 Lorenzo Jannelli

 

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