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L’erba “voglio” non cresce neppure nel giardino del re

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 di Giuseppe Savagnone

 

C’è qualcosa a cui le occupazioni studentesche di questi giorni – non solo a Palermo, ma in tutto il Paese – sicuramente possono servire: a misurare il grado di vicinanza o di lontananza dei giovani rispetto alla politica. Chi ne difende il significato e la legittimità sottolinea, spesso, la carica innovatrice che esse esprimono. La protesta studentesca – si dice – è un segno di vitalità che può solo far bene a una scuola “ingessata” e che costituisce un richiamo salutare per la nostra classe politica. Peraltro, le richieste dei ragazzi sono più che ragionevoli: essi vogliono, fra le altre cose, che si ponga fine alla disoccupazione e alla precarietà del lavoro, che minano la loro speranza nel futuro; protestano per i tagli alla scuola pubblica (in realtà intendono quella statale); invocano la gratuità dei libri di testo e dei trasporti per gli studenti. Non sono questi degli obiettivi più che degni di apprezzamento? Perché demonizzare – come alcuni fanno – una manifestazione di democrazia, catalogandola in base a logiche meschinamente disciplinari, invece di   vedere in essa, piuttosto, il frutto  di una presa di coscienza di cui tutti, professori compresi, dovrebbero rallegrarsi?

Rispetto le idee di coloro che danno del fenomeno in questione questa lettura confortante. Desidero solo esporre brevemente i motivi per cui non la condivido. Quello fondamentale è che, ben lungi dall’essere una assunzione di responsabilità in senso politico, le occupazioni  costituiscono, a mio avviso, un alibi per non accostarsi mai ad essa.

Basta guardare allo stile con cui vengono promosse e attuate. Gli obiettivi, inizialmente, sono sempre molto vaghi. E non c’è da stupirsene: la grande maggioranza dei ragazzi non leggono i quotidiani (sola eccezione, la pagina sportiva), con la motivazione (peraltro fondata) che, dai loro resoconti zeppi di sigle e di riferimenti a fatti  passati dati per noti, non riescono a capirci granché. I più attingono la loro cultura politica dalla televisione, e anche da questa in modo estremamente frammentario.

Perciò manca, nella vita ordinaria delle nostre scuole, un dibattito sui grandi temi del bene comune che si svolga continuativamente (come sarebbe importante che accadesse) nelle assemblee di classe e soprattutto in quelle di istituto. Queste ultime, che nel sessantotto erano momenti infuocati di confronto, sono spesso ridotte, da molti anni, ad occasioni di vacanza (o di recupero di studio a casa) per i più, malgrado gli sforzi di pochi volenterosi e disincantati organizzatori. Perciò alla protesta non si arriva attraverso una diagnosi documentata, maturata dalla base studentesca, ma per improvvise ondate di slogan provenienti da altri istituti, con un meccanismo di contagio che si potrebbe sintetizzare nella formula, frequentemente usata: «Se occupano gli altri, perché non noi?». Basta che una scuola cominci, e le altre la seguono.

Questo per molti non sembra costituire, comunque, una difficoltà. Tante  volte, da insegnante, quando ho fatto notare che per protestare bisogna avere delle buone  ragioni (che ci sarebbero, eccome!), mi sono sentito rispondere che l’occupazione serviva proprio a creare gruppi di studio col compito di individuarle! Anche questa ricerca “postuma”, peraltro, lascia, di solito, molto a desiderare. Dopo l’eccitazione dei primissimi giorni, la frequenza ai momenti di studio e di elaborazione culturale langue, fino ad estinguersi del tutto.

Non c’è da stupirsi, data questa labilità delle motivazioni, se, terminate le vacanze natalizie, tutto rientra nel falso ordine di una scuola dove non ci si informa e non si discute di politica. Non se ne parla in classe, perché, dopo la “vacanza”, si è pressati dalle interrogazioni e dal ritardo nei programmi. Paradossalmente, non se ne discute più neppure negli spazi gestiti dai ragazzi, vale a dire nelle assemblee di classe e soprattutto in quelle di istituto, di nuovo  disertate – come del resto prima delle occupazioni –  dalla grande maggioranza degli studenti, che improvvisamente sembra aver perduto ogni interesse alle questioni per cui la scuola era stata occupata.

Si potrà obiettare che, alla fine, comunque, degli obiettivi ragionevoli vengono indicati. Verissimo. Il guaio è che la politica consiste nel rapporto tra i fini che si perseguono e i mezzi che si adottano. Per assumersi la mentalità e la responsabilità  di cittadini-politici non basta volere i primi, bisogna sforzarsi di individuare e di indicare i secondi. L’elenco che in diverse città d’Italia, Palermo compresa, è stato presentato dagli studenti parla delle cose che essi chiedono, ma   non contiene nulla riguardo alle misure che si dovrebbero prendere per realizzarle. Quando il principio del desiderio prevale su quello di realtà siamo ancora in una fase infantile, non adulta. Dire che si vuole una cosa non è ancora fare politica.  Perché, come raccontava una vecchia favola, l’erba “voglio” non cresce neppure nel giardino del re. 

 

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