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L’avvento secondo Casati

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di Don Angelo Casati

 

Dobbiamo confessarlo. Ogni volta che veniamo da letture come queste che danno inizio all’avvento, pur riconoscendone il genere letterario, che è quello dell’apocalittica, parole dunque da non prendere alla lettera,  ci rimane –  non so se anche a voi, a me sì –  incollato all’anima un senso di paura. Che poi può diventare sgomento. E può convertirsi anche in nichilismo: nulla più tiene, non vale la pena, quello che capita capita.

Certo le immagini sono potenti, oserei dire potenti anche nella loro poeticità. Qualcuno potrebbe forse anche dire che descrivono la realtà, i nostri giorni. Ma  mi si insinua intrigante nella mente un pensiero: immagini di tutti i tempi. Marco ricorreva alle stesse immagini evocandole nel suo tempo. Per alzare un monito. Forse perché tutti i tempi, tutti i giorni, portano con sè pericoli, pericoli infausti, e dunque un avvertimento. Ma portano con sé anche segni, segni buoni, e dunque un incoraggiamento. Se non altro portano il segno buono per eccellenza, quello di un Dio che ha passione. Per questo popolo, per noi. Ha passione. E non è forse proprio la passione che gli fa gridare un altolà, come lo fa un padre, come lo fa una madre, per un figlio?

E non si chiude mai sul negativo, forse è solo una fessura di luce, che può anche sfuggire nella lettura, per esempio del brano di Isaia. Dove sembra dominante il colore nero o rossastro del pessimismo: “Guai a me! Guai a me! Ohimé!…Arrossirà la luna. Impallidirà il sole”, ma si aggiunge: “…perché il Signore degli eserciti regna sul monte Sion e a Gerusalemme e davanti ai suoi anziani risplende la sua gloria”. Davanti ai suoi anziani risplende la sua gloria. Una fessura di luce.

Le visioni apocalittiche, voi mi capite, non vanno a spegnere il nostro entusiasmo. Tutt’altro. Se ci viene ricordato che è in atto un conflitto gigantesco tra tenebra e luce, per che cosa lo si fa se non per ricordare a tutti noi che non c’è tempo da perdere, che c’è una urgenza nei giorni, che occorre stare con gli occhi aperti, senza cedere al sonno, all’acquiescenza, al menefreghismo o all’indifferenza? E’ tempo, lasciatemi dire, di creatività. Le letture chiudono, sia pure per esili fessure,  in positivo. Anche tu chiudi in positivo.

Anche il brano di Marco oggi concludeva con il Signore che con la sua venuta dà un nome al bene, all’onesta del vivere, alla giustizia. Ed è un peccato, un vero peccato, che la lettura abbia tralasciato gli ultimi versetti, che chiudono con due bellissime immagini. La prima, quella del fico che germoglia. Eccola: “Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte “.  Non è un discorso terrorizzante quello di Dio: è vicina l’estate, dunque siamo a primavera, la tua vita sia come un fico a primavera, la creatività. E nel segno della creatività anche l’ultima immagine. “Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”.

Non ci trovi addormentati. Il Signore ci trovi, da oggi, appassionati, appassionati  alla casa che ci è stata consegnata. Consegnata perché ce ne prendessimo cura. Non un Dio di cui sentire il fiato grosso come di padrone sulle spalle, ma un Dio di cui sentire alle spalle un respiro di fiducia, crede in te. E  tu di conseguenza diventi creativo.

Ricordate la parabola dei tre che ricevettero un giorno dal loro Signore talenti da trafficare? L’unico che non trafficò il talento fu quello che ne ricevette uno. Ma perché non lo trafficò? Perché era perseguitato nel pensiero da una religione della paura. “Signore” disse ”so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.

Ricordatelo, ricordiamocelo:  la religione della paura ci fa nascondere i talenti, ci fa, al massimo, conservatori, senza fantasia del talento.

Mi ritornano alla mente le parole di commento alla parabola di un biblista spagnolo a proposito del servo che sotterrò il talento e  non lo mise a frutto, lo conservò intatto in un luogo sicuro. Parole che mi risuonano intriganti per il mio avvento, spero anche per il vostro, che si colora dell’attesa del Signore: “Questa tentazione di conservatorismo” scrive “è molto forte in tempi di crisi religiosa. È facile allora invocare la necessità di controllare l’ortodossia, rafforzare la disciplina e la normativa, assicurare l’appartenenza alla Chiesa… Tutto può essere spiegabile, ma non è spesso una maniera di svigorire l’Evangelo e congelare la creatività dello Spirito?      

Per i capi religiosi e i responsabili delle comunità cristiane può essere più comodo “ripetere” in maniera monotona le strade ereditate dal passato, ignorando gli interrogativi, le contraddizioni e le proposte dell’uomo moderno, ma a che serve tutto questo se non siamo capaci di trasmettere luce e speranza ai problemi e alle sofferenze che scuotono gli uomini e le donne dei nostri giorni?

Il messaggio di Gesù è chiaro. No al conservatorismo, sì alla creatività. No a una vita sterile, sì alla risposta attiva a Dio. No all’ossessione della sicurezza, sì allo sforzo arrischiato per trasformare il mondo. No alla fede seppellita sotto il conservatorismo, sì al lavoro impegnato nell’aprire vie al Regno di Dio” (José Antonio Pagola).

Ce ne dia la forza, la passione, la speranza, il Signore! Nell’attesa del suo ritorno.

 

16 novembre 2014

 

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