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Il sogno di Papa Francesco sui migranti

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di Mario Affronti

 

Se ne parlerà al IV Seminario Regionale congiunto della CARITAS e della MIGRANTES: Insieme per la promozione della dignità dei migranti, nell’anno giubilare della misericordia, che si terrà all’Hotel Costa Verde di Cefalù il 14 e 15 ottobre 2016.

Quattro le parole chiave del seminario regionale giunto alla IV edizione. Sono quelle pronunciate da Francesco alla città di Prato (10 novembre 2015) a proposito dell’immigrazione italiana: rispetto, accoglienza, inclusione, integrazione. All’inizio, prima ancora della risposta ai vari bisogni, c’è la consapevolezza dell’importanza del riconoscimento della dignità e della libertà dell’individuo. Prima ancora di essere un bisognoso, chi chiede il nostro aiuto è una persona da rispettare in quanto tale. Dare cittadinanza a questo bisogno deve essere la nostra prima preoccupazione e deve far parte integrante della metodologia dell’accoglienza. Riconoscere la dignità però non basta se contestualmente non viene riconosciuta l’identità-autenticità che è unica e che rischia di essere ignorata, trascurata, assimilata ad una identità dominante e maggioritaria. Il riconoscimento delle differenze e dell’autenticità identitaria deve rappresentare il passo successivo nell’accoglienza di queste persone.

Il 3 giugno, in un intervento durante un convegno di giuristi, prendendo la parola Francesco ha detto che la Chiesa deve occuparsi di politica alta, deve schierarsi politicamente affinché la politica sostenga il bene comune, l’interesse generale ed il valore della misericordia. Leggi, iniziative, mobilitazione di risorse materiali e loro impiego affinché il bene comune sia tutelato e la misericordia diventi non soltanto una verità religiosa ma una politica sociale verso i deboli, gli esclusi, i poveri. Le parole inclusione ed integrazione riguardano innanzitutto la Chiesa di Sicilia. Nel Convegno degli Organismi pastorali regionali a Campofelice di Roccella (18 – 21 novembre 2013) “Insieme per  annunciare la speranza”, abbiamo riflettuto sul fatto che “non possiamo annunciare il Vangelo senza una lettura attenta della dimensione che viviamo, consapevoli che un’evangelizzazione efficace deve tener conto della cultura del nostro tempo, ma anche delle peculiarità della nostra terra”. Si è parlato di  esodo etnico-culturale: apertura alle diverse culture presenti sul nostro territorio con un movimento che va dalla diocesi alla regione, dall’ufficio alle parrocchie e ai movimenti, dal tempio al territorio, dalla parrocchia alla società. E’ la chiesa “in uscita” del papa. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi dunque uscite per le strade e andate ai crocicchi: “tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso” (Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada “zoppi, storpi, ciechi, sordi” (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.

Questo è il sogno di papa Francesco. Condizione essenziale è quella di riconoscere che “uscire” è più un movimento che una dotazione; non costituisce un’attività particolare accanto ad altre , bensì rappresenta lo “stile”, ovvero la forma unificante della vita di ciascun battezzato e della Chiesa nel suo insieme. Infatti come ha rimarcato il papa “l’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale”.

Un luogo significativo dell’umanità in uscita è data dai gesti e dai segni di accoglienza delle persone provenienti da inedite frontiere di dramma, come quella dell’esodo di popoli interi. L’arrivo di queste persone, fisicamente e forzatamente “in uscita” dalle loro terre, mette alla prova la nostra autentica disponibilità a non trasformare il riferimento alla via dell’uscire in un puro esercizio retorico, in quanto ci spinge a passare da progetti puramente assistenziali a progetti di “inclusione e integrazione sociale e comunitaria”. Ponendo al centro Gesù Cristo, nella sua identità integralmente umana e proprio per questo pienamente divina, serve in primo luogo un cambiamento di stile. Non si tratta di “fare” per forza cose nuove, di avviare chissà quali iniziative, bensì di convertire la forma complessiva dell’agire pastorale, per renderlo maggiormente capace di mettersi a servizio dell’incontro di ciascuno con Gesù e la sua forza di autentica umanizzazione. L’incontro testimoniale con altri, se non vuole correre il rischio di rimanere un contatto superficiale deve accadere sempre volta per volta, e volto per volto. Di conseguenza per uscire verso gli altri è necessario accorgersi di chi ha bisogno e non solo della sua indigenza; è necessario essere in grado di mappare il territorio, monitorarne le dinamiche, anche grazie ad antenne sociali disseminate cioè a punti di riferimento di singoli e famiglie in grado di portare nelle comunità ecclesiali le domande di vita spesso nascoste o ignorate. A questo riguardo, superando un latente clericalismo, è indispensabile recuperare una presenza laicale capace di ripartire verso nuove frontiere.

Coltivando un rapporto con il mondo che assomigli al canto del Magnificat: leggendo ciò che il Signore opera con i poveri della terra e riconsegnando al nostro Paese il calore e la capacità di dialogo di un umanesimo mediterraneo. L’integrazione riguarda infine noi tutti, addetti ai lavori. “Dobbiamo raccogliere la sfida di una pastorale d’insieme, che anche se non deve mortificare la peculiarità di ciascun ufficio o organismo, nella sua stessa modalità, deve poter esprimere il volto della Chiesa che è una non soltanto nei grandi intendimenti ma anche nella quotidiana fatica della testimonianza” (C. Cuttitta). Solo così possiamo realizzare il sogno di Francesco: “Sognate anche voi questa chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura”.

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