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I mostri li creiamo noi

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di Giuseppe Savagnone

 

 

   «Sbatti il mostro in prima pagina». È un classico del linguaggio giornalistico e rispecchia uno stile che da sempre si rivela perfettamente funzionale all’aumento delle vendite. E anche in questi giorni i mezzi di comunicazione hanno avuto i loro “mostri” da esibire, studiare, narrare, esecrare, sull’onda di un’emozione collettiva che ha scosso l’opinione pubblica. E comprensibilmente, perché stiamo parlando della vicenda di un povero ragazzo, Luca Varani, di 23 anni, barbaramente trucidato a coltellate e martellate da due giovani di 29 e 30 anni che, per loro dichiarazione,  hanno compiuto un crimine così atroce e gratuito solo per vedere che effetto faceva.

 

   Gli assassini non hanno scusanti. Non sono poveri, non sono emarginati, non sono state mai vittime di nulla e di nessuno. Appartengono a quella borghesia medio-alta che ha soldi e li spende per divertirsi. A detta dei vicini, giovani “normali”. Ma se un giovane “normale” può fare un gesto simile, tutti i parametri logici, tutte le sicurezze saltano!

 

   O forse dobbiamo fermarci a riflettere e chiederci se, ferma restando la piena responsabilità dei due criminali, non ci sia da parte di tutti noi una certa fretta di bollarli come “mostri”, forse anche per esorcizzare il pensiero che in fondo sono cresciuti tra noi e vengono dalle famiglie, dalle scuole, dagli ambienti umani che noi, e nessun altro, abbiamo costruito o almeno avallato.

 

   «I giovani», ha scritto qualche anno fa un osservatore non sospetto di moralismo, Umberto Galimberti, «anche se non ne sono consci, stanno male» (L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, p.11). Non bisogna lasciarsi ingannare dalla loro chiassosa euforia nelle notti  in discoteca, dal vorticoso succedersi delle loro esperienze sessuali, dal loro abbandonarsi ai vari tipi di droghe. Essi «cercano i divertimenti perché non sanno gioire» (ivi, p. 34).

 

   Quella che sembra pienezza di vita è in realtà solo l’antidoto a un profondo disagio interiore: «Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché  promette di seppellire l’angoscia» (ivi, p.11).

 

   Un tragico sintomo di questo malessere sono i suicidi – quattromila l’anno! – che nel nostro Paese, tra i giovani sotto i venticinque anni, costituiscono la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. E’ in questo quadro che bisogna situare i tanti gesti di violenza gratuita, insensata – come quello di cui ci stiamo occupando – , archiviati con l’agghiacciante formula burocratica: «Omicidio volontario premeditato senza movente».

 

   Qualcuno ha timidamente notato che  le nuove generazioni, piuttosto che le responsabili di questo smarrimento, ne sono soprattutto le vittime. Sono venuti meno degli educatori degni della loro fiducia. Come si dice negli Orientamenti pastorali della CEI: «I giovani si trovano spesso a confronto con figure  adulte demotivate  e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita che suscitino amore e dedizione» (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 12).

 

   E sono soprattutto venuti meno dei punti di riferimento ideali – verità, valori – in grado di dare senso alle scelte, alla vita. Perciò le crisi giovanili non sono più un fatto individuale, legato alla crescita, come una volta, ma dipendono da un clima che si respira: «Nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale» (Galimberti, L’ospite inquietante, pp. 11-12).

 

   Colpisce la sintonia tra la diagnosi di questo intellettuale “laico”  e quella di Benedetto XVI nella Lettera sull’educazione, da lui indirizzata, alla fine del gennaio 2008, alla diocesi e alla città di Roma: «Troppe incertezze e troppi dubbi circolano nella nostra società e nella nostra cultura, troppe immagini distorte sono veicolate dai mezzi di comunicazione sociale. Diventa difficile, così, proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti spendere la propria vita».

 

   L’emergenza educativa, in questo contesto, riguarda gli adulti, gli educatori, più che i giovani: «Quando infatti» – notava il pontefice –  «in una società e  in una cultura segnate da un relativismo pervasivo e non di rado aggressivo, sembrano venir meno le certezze basilari, i valori e le speranze che danno un senso alla vita, si diffonde facilmente, tra i genitori come tra gli insegnanti, la tentazione di rinunciare al proprio compito, e ancor prima il rischio di non comprendere più quale sia il proprio ruolo e la propria missione. Così i fanciulli, gli adolescenti e i giovani, pur circondati da molte attenzioni e tenuti forse eccessivamente al riparo dalle prove e dalle difficoltà della vita, si sentono alla fine lasciati soli davanti alle grandi domande che nascono inevitabilmente dentro di loro».

 

   «Sbatti il mostro in prima pagina». Può servire a nascondere a noi stessi il vero problema. I mostri li creiamo noi, la nostra cultura “emancipata”, libera, ormai, dai tabù e dai dogmi del passato, non sostituiti da altra certezza che quella di un vuoto che chiamiamo libertà.

 

   Dalla diagnosi si può ricavare la terapia: se la crisi si pone sul terreno culturale, «è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani (…) sono le prime vittime» (Galimberti L’ospite inquietante, p.12). Invece di stupirci che da una rinunzia ad ogni verità e ad ogni valore derivi, almeno potenzialmente, solo distruzione, cerchiamo di ricostruire, a partire da queste rovine, prospettive di senso. Se non vogliamo trovarci ancora davanti a giovani che uccidono solo per vedere che effetto fa.

 

 

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