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Don Carmelo Umana – Istituto salesiano Don Bosco Ranchibile

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Intervista a don Carmelo Umana

Direttore dell’Istituto Salesiano don Bosco Ranchibile

28.11.2013

 

Seguendo il carisma di don Bosco di educare buoni cristiani e onesti cittadini, la comunità dei salesiani è impegnata nella realizzazione del disegno di Dio su ciascun ragazzo, attualizzando il metodo educativo alle esigenze che la nostra epoca riflette: attenzione al linguaggio e allo stile comunicativo. A ciò si aggiunge il desiderio di potere partecipare alla formazione e alla celebrazione dei sacramenti, auspicando che il concetto di territorio parrocchiale sia inteso in senso antropologico, secondo lo spirito del tempo e in conformità con il documento pastorale dei Vescovi del nostro decennio.

 

Quali sono i tratti essenziali dell’esperienza di fede che vi caratterizza?

Possiamo distinguere due livelli tra loro interagenti: la comunità e l’azione pastorale. La comunità religiosa si percepisce e vive come nucleo animatore in un contesto più vasto e ha una sua specificità vocazionale. In quanto comunità di consacrati ciò che ci caratterizza è la sequela al Signore dei consigli evangelici, con uno stile pastorale delineato dalla missione e dal carisma salesiano. E’ la vicenda di Giovanni Bosco che aiuta a capire il nostro mondo e la nostra azione pastorale .

 

Quale il principale compito educativo della scuola nella nostra epoca e, in particolare, quale il ruolo dei salesiani nel campo educativo? In che modo l’esperienza di don Bosco ispira la vostra esperienza educativa?

Già il fatto stesso di definire la scuola nel campo educativo è una scelta nella quale ci ritroviamo totalmente: non si può negare che per un’area molto consistente la parola “scuola” ricade nel campo dell’istruzione e non in quello dell’educazione. La formazione delle persone non si esaurisce nella dimensione della cultura. Il sogno è di costruire uomini e donne nuove. C’è una immagine della Bibbia che è a me molto cara: l’immagine  del pastorello Davide che non è candidato a essere re. L’uomo di Dio, Samuele, sente che nessuno delle persone sedute alla tavola è l’uomo che Dio ha designato a servire il suo popolo, ma che è il piccolo pastorello Davide il designato. Educare è vedere la corona sulla testa del piccolo pastorello Davide: sognarlo, pensarlo, immaginarlo come Dio lo ha pensato, immaginato e voluto e costruire insieme coi ragazzi questa dimensione.

Don Bosco aveva una visione sinfonica dell’educazione e della formazione: la prima attenzione è rivolta al ragazzo, così com’è nel suo complesso; la seconda è rivolta all’azione che lo Spirito Santo sta compiendo; la terza è rivolta al lavoro dell’educatore o meglio della comunità dell’educatore, che deve sintonizzarsi con il ragazzo e con il lavoro dello Spirito Santo, al fine di condurre il ragazzo ad essere ciò che Dio sogna su di lui.

 

Quale significato ha avuto la tappa qui in Sicilia dell’urna di don Bosco che dal 2009 sta percorrendo tutto il mondo?

Era già stato escluso, nella nostra percezione, che fosse una modalità per vivere un evento solo celebrativo. La domanda che, come salesiani nel mondo, ci siamo posti è cosa volesse dire essere figli di don Bosco in questo tempo. Si tratta di vivere una duplice fedeltà  rivolta sia a don Bosco e al suo carisma sia al tempo in cui viviamo, ai ragazzi e alle famiglie di oggi al servizio dei quali il carisma si pone.

Questo ha significato percorrere un itinerario che è stato articolato in tre tappe: la prima tappa è stata quella della ricomprensione della personalità di don Bosco, attraverso un rinnovato approfondimento di studi e conoscenze delle scienze umane e storiche e della biografia di Don Bosco e del tempo in cui ha vissuto, per potere fare un paragone con il nostro tempo. La seconda tappa è stata quella di rispondere ad una approfondimento e ad una sfida di attualizzazione del sistema educativo di don Bosco, del suo metodo educativo, delle sue intuizioni in questo tempo che è cambiato rispetto al passato: cosa vuol dire essere maestri coinvolti nell’educazione dei ragazzi nei diversi contesti del mondo? L’itinerario dell’urna ha percorso 132 nazioni, che sono quelle in cui attualmente le istituzioni salesiane sono presenti. Non faccio riferimento alla realtà salesiana, che è molto più vasta rispetto le istituzioni. Il terzo passaggio è quello della spiritualità: qual è il dono che lo Spirito Santo ha dato a don Bosco? Il percorso dell’urna vuole essere proprio questa esperienza, anche mistica, in merito all’appello ad essere figli di don Bosco oggi.

 L’urna, che in realtà è solo una copia dell’urna che è a Torino, contiene la mano e il braccio destro. Il segno è questo: quella mano che ha sorretto tanti giovani, che ha benedetto, che ha scritto più di duecento volumi, che ha agito a servizio dei giovani, ha significato il nostro raggiungerci, il prenderci per mano per condurci a rispondere oggi all’appello che il Signore, attraverso i giovani, ci fa.

 

In che modo pensa che Papa Francesco possa determinare il cammino della Chiesa? Verso quale direzione e verso quali aperture?

Credo che, intanto, al di là delle immagini mediatiche, ci sia sempre nella storia della salvezza una linea da una parte di continuità, dall’altra parte di discontinuità, perché lo Spirito è sempre pieno di sorprese. La personalità di questo Papa, chiamato alla successione di Pietro, ci sta dando la sorpresa della giovinezza della Chiesa. Il contributo che ci sta dando è quello di una persona che, venendo da un altro contesto rispetto al mondo europeo, ci ha detto non attardarci più sui tanti discorsi. Il Papa ci dice di guardare avanti, di guardare oltre. L’analisi, quanto più ci addentriamo, può diventare paralizzante e io credo che questo sia un pò accaduto. Papa Francesco ci sta dando il segno di uno stracciarsi completo e dinamico per rispondere alle attese e agli appelli del Signore. Lo sta facendo con una grande capacità di empatia umana e questo è un dono straordinario, perché la gente, tutti noi, abbiamo bisogno di calorosità, di contatto. Il Papa sta parlando di una umanizzazione vissuta nei gesti di ogni giorno, sta aiutando la Chiesa robustamente a ricondursi e a esprimere con più radicalità la vicinanza ai poveri e quindi a lasciarsi evangelizzare da loro. Ci sta dando questo senso di gioia, di festa, di relazione, di semplicità, di riduzione degli apparati, che è una cosa su cui noi abbiamo una grande sintonia. Vivere con i ragazzi e con le famiglie vuol dire, infatti, svestirsi di tutto quello che può creare distanza. Credo che questo sia un segno straordinario.

 C’è al riguardo un episodio della biografia di don Bosco che è poi diventato la chiave di lettura del suo carisma. Don Bosco, da ragazzo, sente di essere chiamato alla vita sacerdotale, ma non è ancora molto chiaro. Egli nutre un sentimento di simpatia e di rispetto verso i sacerdoti. Racconta che il parroco e il vice parroco del luogo in cui viveva avevano l’abitudine di fare una passeggiata nel pomeriggio e lui con molto piacere e rispetto si avvicinava e, con cordialità, li salutava ricevendo in cambio solo un saluto educato, ma distaccato. Dentro di sè maturò l’idea che, se fosse diventato sacerdote, non sarebbe mai stato distaccato come erano stati loro.

Un’altra cosa che fece riflettere don Bosco fu quando entrando in una chiesa gremita, durante una predicazione, trovò nella navata laterale seduti su un gradino della chiesa un gruppo di ragazzi che giocherellavano fra di loro. Don Bosco si avvicinò con simpatia e chiese perché non seguissero la predica. Uno dei ragazzi alzò la testa e rispose che il prete non stava parlando con loro.  Questo mi fa pensare a quante volte le nostre celebrazioni liturgiche sono noiose e i predicanti distanti e quanto il rischio della noia sia alto.

Quindi la sfida è trovare un contatto, un linguaggio che sia dalla parte dei ragazzi. Don Bosco aveva ricevuto l’invito a prepararsi alla predicazione, ma aveva sempre in testa il chiodo del linguaggio e della comunicazione. Maturò l’idea di leggere le sue prediche ad altri e infatti un giorno leggeva a sua madre e parlando di San Pietro lo chiamò il gran clavigero. Mamma Margherita alzò la testa e chiese dove fosse questo paese. Lui capì da questa domanda che doveva ulteriormente sfrondare i dati derivanti dalla sua preparazione culturale.

Un’altra sfida che penso sia importante è non solo il linguaggio delle parole, ma anche lo stile comunicativo. Don Bosco ci ha dato fortemente questo segnale. Noi salesiani pensiamo di dovere percorrere questa strada stando attenti al fatto che ci sono tornanti nuovi. Pensiamo, ad esempio, al fatto che i ragazzi di oggi nascono all’interno di una cultura digitale e che hanno un pensiero digitale, diversamente dal mondo degli adulti.   La sfida è nostra: i ragazzi semplicemente vivono questo mondo. Riuscire a trovare una sintonia, una modalità di comunicare efficacemente è uno dei grandi appuntamenti che la Chiesa ha. Noi perseguiamo questa strada.

 

Svolgete attività di preparazione per i sacramenti? I catechisti per la preparazione alla prima comunione e alla cresima da chi  e come vengono preparati?

Dalla biografia di Don Bosco emerge come, pur non volendolo, egli si sia scontrato con una certo modo di fare pastorale. Quando Don Bosco cominciò a fare le sue legalizzazioni i parroci contestarono duramente e fecero appello al vescovo, perché accusavano don Bosco di sottrarre loro i ragazzi dal catechismo delle parrocchie. Vede è una storia antica. Don Bosco provava a dire, senza molto successo, che in realtà loro non dovevano avere alcuna preoccupazione, perché le persone che lui raggiungeva erano esattamente quelli che in chiesa non ci andavano. Era quindi una linea di azione pastorale missionaria.

Il Papa oggi parla di periferie esistenziali: siamo lì, periferie, lontananze dalla Chiesa. Don Bosco visse il dramma di una gioventù che si allontanava dalla Chiesa, degli operai che lasciano in massa la Chiesa. Siamo nel periodo in cui Carl Marx scrive il Manifesto, è il tempo della rivoluzione industriale, in cui la politica liberale è anche anti ecclesiastica. Lui non sta a questo gioco dell’anti: si mette dentro e giuoca a favore dei ragazzi, provando a gettare un ponte. Allora questo tentativo di essere una presenza di Chiesa alle periferie è quello che da sempre ci caratterizza. E’ significativo anche questo fatto: che noi salesiani abbiamo come fondatori due padri, due ispiratori. Il primo è Pio IX, il quale obbliga don Bosco a mettere per iscritto quello che nella sua vita sta accadendo e in particolare alcune situazioni che lui nomina sogni e che papa Pio IX vede essere visioni dall’alto. Pio IX domanda a don Bosco chi, quando non ci sarebbe stato più lui, avrebbe continuato la sua opera, suggerendo l’idea di realizzare con un gruppo di collaboratori una congregazione. Don Bosco non ne farà nulla per un lungo periodo, anche perché i tempi sono difficili. L’altro ispiratore è Urbano Rattazzi, anticlericale, che aveva preparato la legge dell’abolizione dei beni ecclesiastici e della soppressione delle congregazioni religiose. Fu Urbano Rattazzi che, ammirato dell’azione sociale di don Bosco, lo chiamò e gli domandò chi avrebbe, dopo di lui, continuato la sua opera. Don Bosco elegantemente rispose che sicuramente sua Eccellenza era a conoscenza di una legge recente che aveva soppresso le congregazioni e Urbano Rattazzi, soavemente, gli rispose che poteva dargli una indicazione: di fondare una congregazione di religiosi davanti la Chiesa e di cittadini davanti lo Stato. Ecco noi nasciamo in una situazione in cui bisogna trovare soluzioni nuove, per contesti che sono radicalmente mutati. Così lo Spirito Santo si serve, secondo il suo stile pieno di sorprese, da una parte della Chiesa e da un’altra della società civile, perchè lo Spirito di Dio opera dovunque, non è circoscritto alla Chiesa.

E’ significativo che se noi siamo a Palermo e in altre parti del mondo è perché i Vescovi o le autorità civili hanno richiesto la nostra presenza: non sono i salesiani che hanno scelto di venire. Quindi c’è stato e tuttora c’è un’esigenza pastorale che spiega la presenza. Questo tipo di pastorale è all’interno di un clichè ecclesiale che non ha ancora una visione ampia. Noi viviamo nell’assurdo di essere sacerdoti religiosi, di essere comunità in cui si celebra l’Eucarestia, ma ai quali non è consentito, se non come eccezione, di accompagnare alla vita sacramentale i ragazzi che vivono e frequentano questo contesto pastorale. Lo schema, infatti, è quello della parrocchia. Il problema non è la parrocchia, ma il  parrocchialismo che, secondo la mia visione,  è una patologia della vita ecclesiale italiana. I Vescovi, nel documento sulla pastorale del decennio che stiamo vivendo, indicano una modalità alta di pensare la vita ecclesiale. Quando il documento dei Vescovi sulla pastorale rinnovata nelle parrocchie fa riferimento al territorio, non ne parla nel senso del diritto canonico, ma lo considera come luogo antropologico e teologico, come luogo in cui si elabora una cultura. Allora il criterio della parrocchia inteso in senso rigido è un criterio che i Vescovi stessi, nelle dichiarazioni, hanno superato. Nella prassi dobbiamo dire che questo cammino non è compiuto. Noi possiamo avere la situazione di ragazzi che percorrono qui un itinerario di diversi anni, cosa che normalmente nelle parrocchie non accade, perchè finito il momento della comunione e della cresima poi spariscono.  Da noi tante volte la situazione è diversa, però la preparazione e poi la celebrazione del sacramento non sono riconosciute. Noi continuiamo a fare un lavoro di evangelizzazione, ma riteniamo che il non consentire la formazione ai sacramenti sia una visione miope. In questo modo si nega che c’è un settore della comunità ecclesiale che vive già l’impostazione che è data dal documento del decennio che invita ad  avere comunità pastorali che siano comunità segnate nel senso della educazione.

Nella città di Palermo le istituzioni salesiani, al maschile e al femminile, coprono sul fronte educativo diverse postazioni. Parlando di noi confratelli siamo a Santa Chiara nel centro storico a contatto con la comunità dei migranti; siamo in via Evangelista Di Blasi in un’area popolare con un oratorio giovanile. Qui nella sede dove siamo noi abbiamo un oratorio centro giovanile frequentato da circa 700 ragazzi e curiamo rapporti con i servizi sociali, si collabora con la parrocchia, abbiamo una scuola di 900 alunni. Abbiamo una chiesa che non è una parrocchia che, tra sabato e domenica, nella celebrazione eucaristica raccoglie 3000 persone. Abbiamo un cineclub, che vuol dire toccare l’ambito della cultura  e dell’arte, che ha 700 abbonati; lavoriamo sulla evangelizzazione del sociale e agganciamo le famiglie nel vivo dell’educativo. Però è come se noi per certi aspetti non fossimo Chiesa. Certamente noi dobbiamo metterci in discussione su certe modalità, dobbiamo raccordarci, però la percezione è che, nonostante risorse di questo genere, che mobilitano tante persone, la comunità ecclesiale faccia fatica a riconoscere questa realtà come sua.  Ci sentiamo riconosciuti come sacerdoti se ci viene chiesto di presiedere una celebrazione eucaristica  o se ci viene chiesto di fare le confessioni; però per tutto il resto?

 

Considerando chi partecipa alla vostra attività formativa e scolastica, è prevalente il radicamento territoriale o vi sono persone che vengono da zone territoriali diverse?

Tutta la città, per quanto riguarda la scuola la prevalenza è di palermitani, ma ci sono studenti anche dell’hinterland.

Quale il ruolo dei laici?

È un ruolo che è stato riconosciuto e riscoperto dal Concilio e dal magistero ecclesiale. Senza i laici non c’è Chiesa. Il problema è il protagonismo dei laici, che andrebbe sempre riconosciuto  e rispettato da noi sacerdoti. Probabilmente c’è anche una decisione che i laici devono prendere, devono avere quel pizzico di coraggio in più anche verso noi preti e occupare il posto che la loro vocazione gli offre. Io provo un certo fastidio a vedere alla televisione noi sacerdoti che ci occupiamo di cose di cui meglio e più professionalmente i laici potrebbero occuparsi. 

 

Quali sono i rapporti con la parrocchia o le associazioni, i gruppi e i movimenti e qual è il gruppo o il cammino spirituale che ritenete più vicino a quello che perseguite?

Per quel che riguarda la vita ecclesiale noi partecipiamo al percorso della Chiesa cattolica, vivendo i momenti che la Chiesa particolare vive. Mi riferisco ai momenti celebrativi in cattedrale, allo studio delle indicazioni pastorali del Vescovo. Ovviamente noi religiosi partecipiamo agli incontri organizzati dalla vita consacrata dei vari settori pastorali. Per quello che riguarda la dimensione del territorio abbiamo una collaborazione stretta con le parrocchie che sono attorno a noi, in termini di presiedere la celebrazione eucaristica o in termini di disponibilità per le confessioni.

Personalmente credo che si faccia fatica a camminare insieme e questo dipende dalla visione di pastorale del territorio inteso secondo una visione segnata dal tempo che deve evolversi nel senso indicato dai Vescovi come luogo antropologico.  Ma questo non è un problema solo della diocesi di Palermo. Dall’esperienza che mi deriva dalla partecipazione a diversi consigli presbiteriali di diverse diocesi, dovuta al fatto che spesso noi religiosi siamo spostati in diverse zone, penso che questo sia un  problema della Chiesa italiana e non solo di questa diocesi. Qui, poi, come altrove, ci sono dei tratti specifici, però la problematica è comune.

 

Qual è l’iniziativa che vorreste realizzare insieme ad altri gruppi e/o parrocchie?

Più che di iniziative secondo me il punto è quello di crescere in una sensibilità del camminare insieme, di avere una lettura attenta anche culturale del tessuto della città e della diocesi, del domandarci in spirito di piena collaborazione quali sono le attese e quale l’appello che il Signore ci fa e quali sono le forze che possiamo mettere in campo in modo nuovo, sinergico. Credo che l’esigenza sia di avere uno spirito di comunione, che si traduca sempre più in una situazione del partecipare e del leggere più profondamente i segni dei tempi. Io sogno una cosa molto semplice: di cominciare a fare un database per conoscere quali sono le risorse umane e strutturali di cui la Chiesa particolare dispone, per vedere in che modo vengono valorizzate e come le si può ottimizzare. Tra noi preti, per esempio, una delle cose molto semplici di cui si va alla ricerca è quella del predicatore per gli esercizi spirituali. Basterebbe avere questo database di persone che hanno una disponibilità o che possono essere mandate. Allora il fatto di rilevare l’esistenza e di valutarla in prospettiva di futuro, credo che sia una cosa molto semplice e anche praticabile.

 

Cosa ritenete urgente per affrontare i problemi della città e della Chiesa di Palermo, se ce ne sono?

Ribadirei quanto ho già detto, con una sottolineatura ulteriore che è quella di non  parlarci addosso e di non guardarci l’ombelico compiaciuti delle realizzazioni svolte, sia per quanto riguarda la città sia la Chiesa. Non posso fare a meno di pensare a Giovanni Bosco che, giovane sacerdote che ha davanti la sua vita, sente il bisogno di prepararsi meglio e frequenta dopo gli studi teologici, una scuola di specializzazione che gli insegna ad essere sacerdoti, quindi a legare la dimensione e la pratica pastorale senza dimenticare che questa è sorretta da un pensiero. Il suo direttore spirituale, don Giuseppe Cafasso, lo inviterà in modo molto semplice ad andare in giro, a muoversi per le strade e le piazze e ad osservare quello che accade, come vivono i giovani e di cosa hanno bisogno. Don Bosco ha fatto questo. Io avrei intenzione di fare questo: uscire fuori dai percorsi che abbiamo sempre fatto, per lasciarci interrogare fino in fondo da come la vita si sta evolvendo e da ciò che il Signore ci sta chiamando ad essere.

Intervista di Luciana De Grazia

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