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La prepotenza delle religioni secondo fra’ Ortensio da Spinetoli

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Benché il pensiero personale espresso in questa recensione non rispecchi le idee della redazione, Tuttavia è – come sempre – disponibile ad ospitare interventi che esprimono concezioni differenti da quelle del suo staff. Accettiamo, naturalmente, eventuali interventi di risposta sullo stesso tema, o sul libro recensito nell’articolo, che vogliano porre in luce aspetti diversi della questione o esprimere opinioni di segno differente.


Non si può negare che per un osservatore la situazione attuale della Chiesa cattolica sia un enigma di difficile decifrazione. Ancora ai tempi della mia gioventù certe schematizzazioni, per quanto approssimative, funzionavano. In ordine decrescente di importanza era un ‘buon’ cattolico chi frequentava regolarmente le chiese (il culto), conosceva gli elementi fondamentali della dottrina (la catechesi) e si sforzava di fare un po’ di bene attorno a sé o, per lo meno, di non fare troppo male (la prassi). Dopo secoli – si potrebbe dire due millenni – di questo identikit è ovvio che la stragrande maggioranza dei cattolici (vescovi, preti, fedeli-laici) lo abbia interiorizzato e lo viva come ovvio, scontato, indiscutibile.

Intanto, però, con il Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 1965) si è avviato un processo apparentemente innocuo che, ben oltre probabilmente le intenzioni degli stessi protagonisti, ha provocato un vero e proprio terremoto: si è tolto il divieto di leggere direttamente, personalmente, la Bibbia (sì, si stenta a crederlo: ma vigeva sino agli anni Sessanta del secolo scorso!) ed anzi si sono invitati tutti i battezzati a seguire corsi di formazione biblica, a leggere manuali e commentari, a organizzare piccoli cenacoli di lettura e confronto esistenziale. Perché questo processo è risultato sconvolgente? Se si legge l’ultima raccolta di articoli del compianto frate cappuccino Ortensio da Spinetoli (La prepotenza delle religioni, Prefazione di Alberto Maggi, Chiarelettere, Milano 2020, pp. 104) si può avere un’idea per rispondere.

Infatti, anche alla luce della propria conversione personale (ma era già credente, anzi frate), egli spiega in che modo gli studi biblici – da lui effettuati ai massimi livelli di rigore scientifico in Germania, a Roma e a Gerusalemme – ribaltarono completamente la sua concezione della ‘religione’. Diciamolo con il minimo possibile di parole (e chi vuole può andare a leggere l’agile volumetto): ha scoperto che il cattolico ‘medio’ viveva una scala di valori esattamente inversa rispetto a Gesù di Nazareth (di cui pure ogni cristiano si proclama discepolo e tendenzialmente imitatore).

“Gesù” – scrive p. Ortensio a p. 14 “ha una grande fede (un’eccezionale, unica –comunione con Dio, con lo Spirito), ma non è un grande teologo (non teorizza molto sulla realtà divina), né fa ricorso a un particolare cerimoniale quando tratta con Lui; non celebra, ma prega soltanto” ; al contrario, i suoi discepoli si organizzano in una struttura ecclesiale in cui ci si preoccupa molto delle celebrazioni religiose, meno della ricerca teologica e quasi per nulla della fede (intesa nella sua dimensione mistico-politica di unione con l’Assoluto attraverso l’impegno per una società più giusta, fraterna, libera, solidale).

Anche un bambino intuisce che, se si scopre questa inversione di priorità, nulla resta come prima. La tragedia del cattolicesimo è che alcuni ‘vedono’ e accettano queste scoperte; altri o non ne vengono mai a conoscenza (non pare che un Berlusconi o un Salvini abbiano dedicato molti anni, e molte notti, all’esegesi neotestamentaria) o, avendole apprese, non sono disposti a lasciarsi scombussolare inveterati equilibri psichici e di ruolo sociale (come si fa a dire a un cardinal Tarcisio Bertone che l’imitatio Christi non si misura con l’accettazione di tutti decreti del sant’Uffizio e non prevede che le offerte dei fedeli per l’ospedale “Bambin Gesù” vengano destinate alla ristrutturazione del suo appartamento principesco nel centro storico di Roma?). Tra le due categorie di credenti il solco è incolmabile.

Da questa “opzione di fondo” discendono innumerevoli conseguenze logiche e pratiche per cui è difficile che la stessa etichetta di ‘cristiano’ possa abbracciare sia il discepolo di un povero Cristo che non si è appellato “alla teologia e alle pratiche religiose, ma alla fede, al rapporto personale che ognuno è chiamato a stabilire con Dio, con il suo Spirito” ( p. 14) sia il fedele che “teorizza (fa teologia) e celebra (compie riti) in genere più di quanto operi, più di quanto cioè creda” (e che, aggiunge l’autore, “dovrebbe cominciare a fare il contrario”) (p. 29).

Si potrebbe obiettare che, con minore consapevolezza, questa tensione dialettica fra il primato della fede come autodonazione agapica e la fede come accettazione incondizionata di dogmi e di norme morali non sia nuova nella storia delle chiese cristiane. Ciò che è nuova è la situazione paradossale odierna di un gesuita che, educato nella prospettiva tradizionale, matura – un po’ per gli studi effettuati e un po’ per intuizione spirituale – una conversione in direzione dell’originario messaggio evangelico: così arriva alla cattedra pontificia e, invece di scegliere come nome Ignazio o Giovanni Paolo III o Benedetto XVII, preferisce Francesco.

Non rinnega nulla della teologia né della pratica liturgico-sacramentaria, ma le detronizza e le restituisce al rango che – nell’ottica del Maestro di Galilea – spetta ad esse: le ricolloca alla stregua di ancillae charitatis (ancelle della regina di casa: la ‘carità’ intesa non come beneficenza occasionale, bensì come impegno continuo per la fioritura di tutto l’uomo e di tutti gli uomini).

Una teologia e una frequenza ai riti religiosi che non incrementino l’amore evangelico sono inutili. Anzi, blasfeme. Papa Francesco lo ha ribadito il 2 gennaio 2020 alla prima udienza generale dell’anno: “meglio vivere come un ateo anziché dare una contro-testimonianza dell’essere cristiani”. Già: molto meglio essere atei e mangiapreti, ma vivere la com-passione per i disgraziati della Terra, la condivisione dei beni con gli impoveriti, la solidarietà con i deboli talmente deboli da non avere più voce per gridare i propri diritti.

Non si tratta qui di cedere all’irrazionalismo, al sociologismo, all’orizzontalismo, ma di fare i conti seriamente con l’evangelo sine glossa: liberi tutti di rifiutarlo come sogno irrealizzabile o follia, non di illudersi d’accoglierlo a patto di addomesticarlo preventivamente e di presentarlo agli altri come rassicurante manifesto del moderatismo benpensante. Ortensio da Spinetoli, pagando di persona ogni genere di persecuzione da parte della gerarchia cattolica (“gerarchia”: un vocabolo che l’illustre biblista sostiene di non aver mai incontrato nel Secondo Testamento !), non si stanca di ribadirlo anche in questo volume: “La predicazione, l’azione di Gesù, è stata definita la prima rivoluzione sociale. Non è una definizione completa, ma non si può dire che non sia vera. Non ha lasciato i ricchi indisturbati nei loro domini (Lc 6, 24 – 26), né i potenti al sicuro nei loro troni (Lc 1, 51 – 55), ma ha chiesto agli uni la condivisione (Lc 11,41 ; 18, 22) e agli altri il servizio (Mt 20, 28). Neanche l’osservanza del Sabato può schiavizzare l’uomo (Mc 2, 27). Un comportamento coraggioso, idealistico se non utopico, ma pericoloso per i detentori del potere politico e religioso, che appena se ne sono accorti lo hanno fermato” (pp. 34 – 35).

In buona fede o in mala fede, tanti – soprattutto tra i vertici apicali delle istituzioni civili e religiose – stanno cercando di fermare Francesco come hanno fermato don Milani, Oscar Romero, don Pino Puglisi, don Giuseppe Diana (per limitarci ai cattolici ‘ufficiali’). La storia continua e continuerà sino a quando non si sarà fatta chiarezza, nell’opinione pubblica, sul bivio radicale di fondo: o si osa dirsi cristiani perché – alla sequela di Gesù Cristo – si lavora “per il bene di tutti ovvero per la realizzazione di una convivenza di amici, di eguali, di fratelli, senza distinzione di razza, di cultura, di fede religiosa” oppure ci si convince che mettersi al seguito del Predicatore errante palestinese significhi “appuntarsi un distintivo, un segno di riconoscimento o farsi ripetitori delle sue parole (ufficio forse utile ma ancora accademico)”, evitando accuratamente di “compiere delle scelte, coraggiose e scomode, per il bene di tutti” (p. 35).

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