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Cronaca da una scuola che resiste. Anche ai vandali.

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scuola_vandalizzata.png 

 

di Valentina Chinnici

 

 

A tutti i miei colleghi

che dopo tre anni hanno rivissuto l’incubo

della devastazione vandalica della loro  scuola

 

     Si torna a scuola dopo le vacanze di Pasqua. In macchina la testa frulla di pensieri sul cosa fare, come organizzare l’attività di oggi, come risolvere il conflitto fra Marta e Deborah che si trascina ormai da giorni. Sorrido al pensiero della loro svogliatezza post-vacanziera, del loro chiedermi tregua perché si devono “riprendere” dalle abbuffate familiari. Sono contenta. In effetti mi sono mancati. Scendo. Mi sono vestita e truccata con più cura del solito: voglio che mi trovino bene. Si accorgono sempre di tutto, loro. Non ho ancora varcato il cancello della scuola, quella scritta “Qui si educa all’onestà, alla giustizia, alla pace” che ci fa tanto orgogliosi, quando mi sento avvolgere da un odore pungente e soffocante, di plastica e legno bruciati. Penso ai soliti cassonetti, a qualche effluvio in più dalla vicina discarica di Bellolampo, e invece no. Davanti a me l’inferno. L’atrio della scuola è irriconoscibile: il tavolo dell’accoglienza mezzo bruciato, la macchinetta delle merendine bucata al centro con la plastica fusa come una colata di lava raffreddata. Per terra un tappeto di polvere giallastra. I piedi si appiccicano sul pavimento. Due colleghe mi sorridono amare:

               

 –  Entravi adesso? Non ne sapevi nulla?

     No. Che è successo?

     Hanno dato fuoco. Hanno svuotato tutti gli estintori.

 

Mi sforzo di restare calma. Mi avvio verso la classe.

 

     Ma i ragazzi… dove sono?

     Figurati, li abbiamo rimandati a casa. Non potevano entrare con la scuola ridotta così. Vai a guardare il piano di sopra. Non puoi neanche immaginare. E la palestra… Distrutta…

 

A questo punto comincio a vacillare. A rendermi conto davvero. E salgono lacrime di rabbia. E di dolore. Le stesse che vedo nei volti tirati dei colleghi. Anche in quelli che riescono a trattenerle. Peggio che c’avessero rubato in casa. Molto peggio. Cerchiamo di sdrammatizzare, ma non viene nessuna battuta. A gruppetti ci riuniamo in presidenza, smarriti, a dare o a cercare conforto nella preside. Lei è l’unica che si dà da fare, parla al telefono con tutti, ticchetta al computer, come chi reagisce al dolore della perdita organizzando il funerale. Davvero sembra di essere a una visita di lutto. Solo che manca il morto. Se ci fosse avrei il coraggio di andare a vederlo, di raccogliermi in silenzio lì davanti, di mormorare una preghiera. E invece oggi sono bloccata e ho paura anche a salire di sopra, a guardarmi attorno, per l’angoscia di notare qualche altro segno di distruzione, che mi sveli, forse, il mio fallimento più grande. Mi diventa insostenibile la vista dell’interruttore liquefatto, dello striscione con la frase di Falcone lacerato da una bruciatura, dei cassetti della mia cattedra aperti sconciamente, dell’armadietto spalancato a vomitare fiumi di carte.

 


 

Ho paura, ma voglio salire al piano di sopra. Chiedo pudicamente a una collega di accompagnarmi. Mi lascio guidare, mano nella mano, come una bambina. Finita la rampa di scale quella mano deve sorreggermi.

“E’ il male assoluto” riesco solo a dire, scioccamente. Già, perché stavolta non hanno nemmeno rubato niente. Finché rubano hai contro chi imprecare, hai come razionalizzare. E’ stata la povertà, è stato il bisogno. Ma di fronte al nulla della distruzione fine a se stessa non ci sono parole. Non c’è niente da spiegare. Provo a immaginare questi ragazzi (ragazzini?), miei alunni o ex alunni, che si sono passati la Pasqua e la Pasquetta così, con gli estintori in mano, per tante, interminabili ore. Saranno stati in tre o quattro, forse in cinque o dieci, chi può dirlo? Avranno riso, sghignazzato, rovesciando il barattolo di vernice verde? O saranno stati concitati, eccitati dal rischio di farsi scoprire? Quello che avrà iniziato a rompere i vasi del laboratorio di ceramica si sarà compiaciuto di spaccare proprio quelli della sua classe, o forse di quella accanto?

Ma no, non è cosa di ragazzini, ci diciamo l’un l’altro, forse per consolarci. Per non sentire che ogni giorno fatichiamo invano. L’effetto collaterale, immediato, sembra proprio quello. Sentirsi veramente e definitivamente dei don Chisciotte senza più nemmeno Sancho Panza. Restiamo lì, frastornati, stretti in sala professori a respirare quel tanfo di plastica bruciata chiedendoci se ci farà male. Qualche ora dopo andiamo via, con la sola certezza di tornare domani, non si sa bene a fare che.

E infatti torniamo, la mattina dopo. La scuola è un po’ più pulita: la squadra dell’Amia e i  nostri bidelli hanno fatto un piccolo miracolo, lavorando fino alle dieci di sera. Ci sentiamo più rincuorati. La parola d’ordine è tornare quanto prima alla normalità. E allora ecco uno, due colleghi che cominciano a imbracciare scope e stracci, insieme a qualche mamma di buona volontà. Per dire che la scuola è nostra e ce la riprendiamo. Comincia la sfilata dei politici. E le loro visite ci fanno piacere. Non ce l’aspettavamo, e invece hanno capito anche loro che era il momento di venire laggiù, nella nostra terra di nessuno. Arrivano rappresentanti del Comune e della Regione, consiglieri comunali e poi ancora giornalisti e fotografi.

In sala professori si anima un piccolo collegio docenti spontaneo. Nel limbo della scuola senza alunni ritroviamo il tempo di parlare di noi, della nostra didattica mancata, dell’immancabile segnale che certamente questi ragazzi ci stanno mandando. La rabbia e l’indignazione lasciano spazio all’assunzione di responsabilità, alla presa in carico anche di chi ha compiuto tutto questo, perché in realtà sappiamo che vengono da lì, dalle nostre stesse classi o dalle file dei drop out, dei dispersi, che a scuola non ci metteranno più piede perché hanno già compiuto i fatidici, terribili quindici anni.

E allora dobbiamo correre ai ripari: e l’unico modo che conosciamo è quello di crescere professionalmente, di studiare percorsi possibili, pezzetti di senso da ritagliare per i nostri alunni nella congerie dittatoriale delle cose che “non possono non sapere”. Ripartiamo da noi, dal nostro fare scuola.

A un tratto una collega improvvisa una colletta. Due euro ciascuno. Beh, anche cento, se servisse a qualcosa. Torna, dopo una manciata di minuti. Le braccia cariche di piante fiorite. In un attimo la scuola mezza bruciacchiata profuma primavera e trabocca colori. La bellezza può coprire ogni barbarie.

 

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