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Contro i papà. Un manifesto per raccontare due generazioni.

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di Peter Ciaccio

Un genere letterario una volta molto in voga era il “manifesto”. Un manifesto deve esporre un’idea che è forte non perché vi è una ferrea dimostrazione, ma semplicemente perché enunciata. Un manifesto si appella al sentimento di chi percepisce fortemente che, così come sono, le cose non vanno. Quel che importa in un manifesto è l’attualità e il modo in cui è scritto. Il libro dell’editorialista del Corriere della Sera Antonio Polito ha queste caratteristiche: Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli (Rizzoli, Milano 2012, p.155, €.14,00) è un manifesto contro il modello educativo post-sessantottino, che sarebbe alla base della condizione maledetta della cosiddetta “generazione perduta” in Italia.

La filippica di Polito è interessante e in parte originale. Che ci sia del marcio nella famiglia italiana è alquanto intuitivo, al punto che alcuni politicanti l’hanno trasformata in un feticcio che non si capisce bene cosa sia. Che sia colpa dei “papà” è meno evidente. L’italiano è notoriamente mammone, al punto che nello stereotipo della famiglia italiana la suocera non abbandona il figlio e si pone in competizione sleale con la povera nuora. Polito accusa invece proprio i papà anche per non tirarsi fuori dalle responsabilità che un’intera generazione ha nei confronti dei 25-40enni.

Giornalista ed ex-parlamentare, Polito ha incontrato talmente tante persone nella sua vita da poter estrarre dalla sua esperienza personale delle considerazioni generali. Particolarmente sfizioso e – ahimè – verosimile l’episodio ricorrente di assemblee di cittadini che di fronte al senatore Polito chiedevano a gran forza una moralizzazione del paese e la fine della piaga delle raccomandazioni, per poi avvicinare l’autore a fine dibattito e sussurrargli la richiesta di raccomandare il proprio figlio per un concorso o un test d’ammissione alla facoltà di Medicina. Gli stessi cittadini pubblicamente indignati erano allo stesso tempo dei papà in cerca della spinta “livellatrice”, che avrebbe permesso al figlio di poter partecipare alla competizione partendo dallo stesso livello degli altri, tutti ovviamente raccomandati.

L’accento sul “familismo amorale”, coniato nel 1958 dal sociologo americano Edward Banfield nel 1958 per descrivere le dinamiche sociali della Basilicata rurale – studio pubblicato in Italia col titolo Basi morali di una società arretrata – è uno dei perni del manifesto di Polito. Principio fondante del familismo amorale è:

Massimizzare i vantaggi materiali e immediati della propria famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo.

La crisi della famiglia come nucleo primario e unico vero sistema di welfare della società italiana non porta alla fine del familismo, ma anzi ne accentua l’amoralità. Da questo sistema perverso Polito fa derivare la crisi di un’intera generazione, che è talmente tutelata dai papà da non riuscire a prendere il volo e ad emanciparsi dalla famiglia. Sul banco degli imputati ci sono anche i complici dei papà.

In primo luogo i cattivi maestri nel senso letterale del termine: docenti che riversano sugli alunni e di conseguenza sulle loro famiglie la loro incapacità di insegnare, assegnando per esempio compiti su argomenti mai spiegati. A tal proposito l’autore lamenta la marginalizzazione in patria degli insegnamenti della pedagogista italiana Maria Montessori, che neanche appare più sulla banconota da 1000 lire. Questoavviene nonostante i vari Steve Jobs (Apple), Sergei Brin e Larry Page (Google), Jeff Bezos (Amazon), Jimmy Wales (Wikipedia) e altri star della New Economy abbiano sempre reso omaggio all’educazione montessoriana ricevuta.

Il socialismo liberale dell’autore appare evidente anche nella sua chiamata sul banco degli imputati del principale complice dei papà: lo Stato, il papà collettivo.

Interessante altresì la sottolineatura di un aspetto che è stato oggetto di scherno di uno degli episodi più simbolici del declino della cosiddetta Seconda Repubblica: l’episodio è quello dei festini di Arcore, l’aspetto particolare è – guarda caso – l’appellativo di “papi”. Un papi cui papà affettuosi e accuditivi affidavano

incredibilmente le proprie figlie, nella speranza di una sistemazione.

Il manifesto di Polito acquista però il suo maggior valore nei capitoli finali, dove spiega che l’affetto e l’accudimento dei papà maschera la volontà di schiacciare i propri figli. Se non fosse intervenuto Dio, Abramo avrebbe tranquillamente ammazzato il figlio Isacco, pur di aver il favore del Signore. Lo strumento più perverso per impedire ai figli di reagire ed emanciparsi è la paura del futuro: niente lavoro, niente soldi, niente pensioni, niente ambiente, niente cibo, niente libertà, addirittura l’invito che sembra giungere unanime dai mass media di non avere alcuna speranza per l’avvenire.

Quand’ero bambino c’era un omino bizzarro che attirava la mia attenzione. Si era dedicato anima e corpo alla crociata contro i papà e girava tutta Roma, frequentando i luoghi di maggior affluenza – stadio Olimpico, stazione Termini, manifestazioni – indossando e alzando dei cartelli con su scritto: È colpa tua e i perché erano molteplici (ad esempio, perché gli dai troppi soldi). Chissà se Antonio Polito lo ha mai incontrato, ma sono certo che l’idea che fosse colpa dei papà non è venuta in mente solo a loro due.

  da Voci Protestanti

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