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Amoris Laetitia: “camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare” (n.325)

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di Alfio Briguglia

 

 

L’incipit del capolavoro di Lev Tolstoj, Anna Karenina, è famoso. L’aforisma iniziale sembra condivisibile come semplice espressione di buon senso: “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. Tolstoj, forse, aveva davanti a sé le famiglie di metà Ottocento, quelle nelle quali una felice combinazione di tradizione, temperamento e agiatezza, unita ad una saggia conduzione familiare, produceva profili familiari che si imitavano e gareggiavano tra loro per realizzare standard socialmente condivisi. Chi invece mancava di ricchezza o di buon senso, chi non reggeva la monotonia del vincolo coniugale o pretendeva troppo dal matrimonio, era destinato a percorrere vie oscure, ad essere infelice nella molteplicità dei modi che la malizia del quotidiano preparava per anime sfortunate o inquiete. La povertà poi raramente poteva accompagnarsi alla felicità, in una società nella quale non esisteva welfare e diritti individuali, nella quale ogni individuo o gruppo familiare era in balia di eventi dolorosi prevedibili e inevitabili, come tutte quelle malattie nei confronti delle quali solo i ricchi potevano avere l’illusione di opporre qualche difesa.

 

C’è del vero in Tolstoj, ma non siamo più nell’Ottocento. Siamo nel secolo della psicologia e della connettività, delle relazioni liquide, della comunicazione globale e della “inflazione delle promesse non mantenute” (AL, 214). Per le famiglie fondate sul patto coniugale non c’è più l’argine della istituzione e del controllo sociale. Il matrimonio non è più considerato bene da proteggere. In Italia, nel cinquantennio della DC, all’orrore nei confronti del divorzio e dell’aborto non si accompagnava una politica di sostegno alle famiglie con beni, servizi, sgravi fiscali che facessero sentire ai coniugi come la stabilità della loro relazione e il mettere al mondo ed educare nuovi cittadini fosse un servizio sociale e non uno “sfizio” privato (AL, 43). C’era, però, un sentire comune che proteggeva il patto coniugale attraverso la censura nei confronti della rottura del vincolo. Oggi la decisione di sposarsi e di generare ed educare figli è considerata una decisione individuale, libera e di scarso interesse sociale. (AL, 32). In queste condizioni di assoluta privatizzazione del vincolo affettivo uomo-donna è difficile far comprendere alle coppie che chiedono il matrimonio canonico che la sua celebrazione non è un fatto privato o una festa riservata ad amici e parenti. Nei corsi di preparazione al matrimonio è molto difficile fare comprendere alle giovani coppie che il passo che si accingono a compiere è un passo che ha rilevanza sociale. Le coppie chiedono la “benedizione di Dio”, una vera cerimonia o altro. Nessuna è consapevole di star mettendo a disposizione della società civile e della comunità ecclesiale il proprio legame affettivo e tutte le risorse di solidarietà che un progetto familiare comporta.

 

Oggi la coppia è lasciata a sé stessa, deve sbrigarsela da sola. Se va bene, bene! per loro e per i figli, quando ci sono. Altrimenti “non casca il mondo!”. Dopo una separazione o un divorzio si ricomincia da capo. In tale contesto culturale le fragilità dei singoli, che sono molto più complesse e variegate di quelle dell’Ottocento, e le immaturità relazionali, accumulate nella crescita, fanno sentire il loro peso dentro la coppia. Le patologie di coppia possono allora essere catalogate, diventare voci di un manuale di psicologia ad uso di terapeuti e counselors familiari.

 

Sembra, allora, che le coppie infelici di oggi siano infelici in modi catalogabili. Esse sono affette da sofferenze che un terapeuta familiare riesce a tipizzare, quando una coppia – che si trova al di qua di quella situazione limite, oltre la quale si finisce per aspirare solo ad una separazione senza troppi strepiti e inimicizie – chiede aiuto.

 

Le coppie felici, invece, a differenza di quello che scrive Tolstoj, sono felici ognuna a modo proprio. Perché, se la via verso l’infelicità è un’autostrada ben sorvegliata dai persuasori occulti di una civiltà del consumo, dell’apparire, della diffidenza, del narcisismo … , la via verso la felicità è un sentiero di campagna che i coniugi devono imparare a percorrere, a volte aprendosi la via, ingombra di rovi o interrotta da frane. In quelle situazioni in cui “tutti gli schemi si rompono”, c’è solo la loro coscienza formata che può tracciare strade nuove (AL, 37).

 

Riuscire a vivere per parecchi decenni – visto che le aspettative di vita rimangono sopra gli ottanta anni per uomini e donne – accanto al proprio coniuge, superare tutte le crisi delle fasi della vita, fino ad un’età avanzata, diventare conduttori di un’impresa così impegnativa, richiede equilibrio mentale, maturità relazionale, capacità di abbandonare le vie standard del “fan tutti così”, rinuncia a velleità adolescenziali, capacità di subire la frustrazione di progetti che non si realizzano, di malattie e disagio economico, accettazione del limite personale e di chi ci sta accanto, richiede dedizione e solidarietà, capacità di sopportare la “disillusione dell’altro” (Bonhoeffer), di non aspettarsi che l’altro sani le proprie ferite. Richiede l’intelligenza di non cercare la pienezza dell’umano nel posto sbagliato (AL, 320).

 

Tutto questo è possibile solo se i coniugi sanno continuamente ritracciare la rotta con creatività, attenzione al nuovo, alle trasformazioni dei tempi, alle nubi che si formano all’orizzonte, alle diverse età della vita e ai cambiamenti psicologici e somatici propri e del coniuge. In cambio si può avere la ventura di ricevere in dono la gioia del cuore. Una famiglia felice, allora, è felice in un modo molto personale, difficilmente imitabile da altre famiglie. Una famiglia “felice” non è un modello per altre famiglie, perché le situazioni familiari sono molto originali. E’, però, una testimonianza del fatto che “sì! si può fare”. Può indicare, più che la strada, le virtù necessarie a percorrerla [Continua].

 

 

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