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Riflessione di don Massimo Naro sulla liturgia della Parola nella XXX domenica del tempo ordinario (anno C)
Sir 35,15b-17.20-22a; Sal 33/34; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
Nell’odierna liturgia della Parola si prolunga il discorso sulla giustizia divina, accennato già nei brani biblici di domenica scorsa.
La giustizia di Dio non si risolve in una faccenda giuridica. È sinonimo di cura materna: si commuove visceralmente. E, al contempo, esprime amore paterno: si muove vigorosamente in favore di chi – in balìa della protervia altrui, non meno che della propria impotenza – invoca il suo aiuto.
Difatti la giustizia – paterna e materna – di Dio si lascia seriamente interpellare dalla preghiera. Non si innesca a seguito di un’istanza legale, non si compie a mo’ di procedura giudiziaria. A sollecitarla è l’urgenza di un bisogno sincero o di una necessità insormontabile.
Lo apprendiamo ascoltando la prima lettura, tratta dal libro del Siracide: «Il Signore è giudice (kritḗs, persona capace di discernere secondo opportuni criteri, nella traduzione greca dell’originale ebraico), non parteggia per i potenti, non discrimina il povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né della vedova quand’ella si sfoga nel lamento».
La seconda lettura ribadisce questo annuncio. Paolo scrive a Timoteo che il Signore è «giusto giudice» (díkaios kritḗs). Perciò gli renderà giustizia al momento e nei modi opportuni, nonostante l’apostolo sia caduto vittima indifesa di una persecuzione giudiziaria: «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito, tutti mi hanno lasciato solo… Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza…, egli mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli». Paolo si sente coinvolto in due procedimenti paralleli. Quello umano, intentato a suo carico dai suoi nemici con accuse capziose, a fronte delle quali ogni difesa sembra non valere. E quello che si svolge, sotto lo sguardo di Dio, nella sua coscienza, dove vale una difesa efficace, che si esprime in forma di preghiera.
La preghiera, in queste pagine antico e neotestamentarie, non è una pia orazione. È una vera e propria denuncia contro l’ingiustizia subita. È una dolorosa rivendicazione – ancorché extragiudiziale – di giustizia. È tutta interiore, ma ha pure una valenza sociale, analogamente (ma solo analogamente) a una moderna mobilitazione sindacale. È il «grido» dei deboli, di coloro che si ritrovano isolati in mezzo ai guai, di coloro che non possono tirarsene fuori da soli, consapevoli che soltanto Dio può (e vuole) soccorrerli, come recita il salmo responsoriale.
È appunto il «grido» – che sgorga dal cuore di chi subisce violenze inaudite e torti mortificanti – ad attivare la giustizia divina. La stimola a «intervenire» per dare «soddisfazione» ai «giusti», come ancora scrive Paolo. Il «grido» è la difesa dei giusti: l’arringa orante, per nulla retorica, che convince il giudice giusto.
Tuttavia, la giustizia in virtù della quale i giusti sono tali al cospetto di Dio, non è quella legale. Consiste, piuttosto, nell’umile – cioè lucida – consapevolezza della propria ingiustizia. Ovvero del proprio peccato. Così è nel caso del pubblicano (nel contesto giudaico di quell’epoca era uno che collaborava con i funzionari romani incassando le tasse per conto dell’erario imperiale, pertanto considerato impuro, contaminato dal contatto con gli idolatri), di cui si parla nella pagina evangelica: amartōlós, leggiamo a suo riguardo nel testo greco di Luca. Amartía, nel Nuovo Testamento, è il peccato, inteso come sbaglio madornale, in quanto tale in fin dei conti involontario, come involontario è il fatto che il cacciatore sbagli mira e non colpisca la preda. È un “peccato” che non ci riesca, nel senso che egli commette un errore che avrebbe dovuto evitare, ma che commette comunque a causa di un tono muscolare talmente indebolito da non permettergli di tendere adeguatamente l’arco. O a causa della vista che diminuisce e si offusca a tal punto da non fargli ben calcolare la traiettoria in cui scoccare la freccia. Paolo, nel suo epistolario, specialmente nella lettera ai Romani, parla del peccato anche come di una parakoḗ (disobbedienza) e di una parábasis (trasgressione). Il significato di questi termini non è primariamente morale o moralistico, tanto meno legale o legalistico, poiché – letteralmente – essi indicano di nuovo un errore fatale sì, ma non voluto, come chi ha problemi d’udito e quindi fraintende ciò che qualcun altro gli sta dicendo, o come chi pensando di imboccare una scorciatoia fa un’indebita digressione, abbandona la via maestra e finisce in un vicolo cieco, smarrendosi.
Essere «giusti», pur avendo commesso tali errori, vuol dire essere consapevoli di dover essere giustificati, resi giusti, da un giudice giusto che trasmette la sua giustizia a chi ne è manchevole e ne ha vitale bisogno. Proprio come il pubblicano, nella parabola di Gesù, che «se ne tornò a casa giustificato».
Tutt’altra storia rispetto al fariseo (nel giudaismo di quel tempo, fariseo era chi apparteneva a un movimento religioso che interpretava le Scritture e praticava il culto secondo un senso marcatamente etico). Il quale, pregando nel tempio, nutre la «presunzione d’essere giusto» davanti a Dio sol perché è ligio alle prescrizioni rituali. La sua idea di giustizia si esaurisce dentro il perimetro segnato dal digiuno praticato due volte alla settimana e dalla decima versata ai sacerdoti. Pensa che il favore di Dio si possa meritare ottemperando a quegli impegni sanciti dalla consuetudine religiosa. La quale, vissuta così, lungi dal maturare in autentica relazione col Signore, si cristallizza nell’autoreferenzialità. In essa la preghiera si riduce a un soliloquio, dato che – come racconta Gesù – quel fariseo pregava sì, ma «tra sé», non dialogando effettivamente con Dio.
Per confrontarsi con la giustizia divina, per chiedere a Dio di aver resa da lui giustizia, per sperare – in definitiva – d’esser da lui giustificato, non occorre incurvarsi su di sé, restando refrattario a una reale relazione con l’Altro e arroccandosi nel «disprezzo verso gli altri». Conviene semmai inginocchiarsi. Il pubblicano, che «non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto», sta parlando davvero con Dio. Il fariseo, pur «stando in piedi», resta piegato su se stesso. L’esito spiazzante delle due diverse posture è coerente alla logica pasquale, che di lì a poco Gesù stesso impersonerà: «Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Secondo tale logica, la giustizia – apparentemente paradossale – del peccatore consiste nel riconoscersi bisognoso d’essere reso giusto. E, al peccatore pentito, di fatto la giustizia divina offre il perdono. Poiché la giustizia di Dio è la sua misericordia.
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