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Gesù e Cristo: due figure parallele?
In un articolo su «La Stampa» del 9 novembre scorso Vito Mancuso ha riassunto la tesi fondamentale del suo ultimo, ponderoso volume, intitolato Gesù e Cristo, edito da Gazanti. Dove la “e” non accentata indica il fatto che, per lui, «Gesù e Cristo sono due personaggi diversi».
Su questa diversità l’autore insiste: «Gesù è un nome ebreo; Cristo è un nome greco. Ma non è solo una questione di nomi»: «Gesù nacque a Nazareth; Cristo a Betlemme. Gesù aveva un padre terreno; Cristo era il Figlio unigenito del Padre celeste. Gesù aveva quattro fratelli e un numero imprecisato di sorelle; Cristo era figlio unico. Gesù ebbe come maestro Giovanni il Battista; Cristo era cugino del Battista e non aveva bisogno di nessun maestro. Gesù non si capisce senza il Battista; Cristo non si capisce senza Pietro e senza Paolo».
I personaggi in questione, secondo Mancuso, avrebbero avuto una fortuna molto diversa: «Di Gesù ben pochi parlano e coltivano la spiritualità; di Cristo ogni giorno sulla terra si proclama la natura divina». Il primo diede vita a una fede che «tramontò ben presto rimanendo pressoché sconosciuta», mentre il secondo è stato al centro di una religione, «fondata successivamente dai suoi discepoli, tra i quali emergono Pietro di Betsàida e Paolo di Tarso», che «ebbe un successo mondiale divenendo la più diffusa del pianeta».
Per la ricerca storica, Gesù era un profeta escatologico-apocalittico e un guaritore, che predicava un messaggio di giustizia destinato a realizzarsi con l’imminente avvento del regno di Dio e che fu messo a morte dalle autorità politiche e religiose, timorose di possibili conseguenze sediziose. Per la fede, Cristo è il Crocifisso-Risorto, Figlio di Dio, «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre».
«Gesù è storia, Cristo è idea». L’intento di Mancuso è di recuperare il primo, ma non per negare il secondo, bensì per ricollocarlo in una prospettiva – inevitabilmente diversa da quella della Chiesa ufficiale – «che torni a essere accettabile per la coscienza contemporanea», sempre più lontana dal cristianesimo tradizionale.
Tuttavia, come Mancuso ha precisato in una intervista, lo stesso giorno, al «Corriere della Sera», non si tratta di opporre Gesù e Cristo, perché di entrambi abbiamo bisogno, ma di «distinguere per poi unire a un livello più alto» .
Ma l’idea di cui il Gesù della storia può essere considerato portatore non è, come nel cristianesimo che conosciamo, l’incarnazione di un Dio che entra nella storia, in un tempo e in un luogo determinati, per redimere il mondo. In questo neo-cristianesimo, secondo Mancuso, «non è un evento storico a costituire uno spartiacque prima del quale le cose erano in un modo e dopo del quale le cose sono mutate in un modo tutto diverso, a cui è necessario credere e partecipare per potersi salvare». Così come non c’è il sacrificio di questo Dio, che offre la sua vita per redimere l’umanità dal peccato.
Per «la salvezza senza redenzione» che la nuova religione proporrebbe «il mezzo salvifico è l’etica, è la vita buona, è la vita giusta. Questa etica professata e vissuta non fa altro che esprimere una logica eterna (…). Cristo non è colui che salva perché ha offerto il suo corpo sulla croce con un sacrificio, con il suo sangue, con l’espiazione del peccato originale, ma è colui che salva nella misura in cui aderiamo a questa logica eterna che da sempre accompagna il mondo e che il lui si è manifestata».
Di questa logica eterna, secondo Mancuso, è espressione non solo il vangelo, ma tutta la grande tradizione spirituale dell’umanità. Come, per esempio, il capitolo 125 del Libro dei morti dell’Antico Egitto, scritto 1.500 anni prima del vangelo di Matteo in cui si legge un identico messaggio: «Ho onorato Dio con ciò che egli ama. Ho dato da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, una veste all’ignudo e una barca a chi non l’aveva».
Questo non significa che la religione debba essere ridotta all’etica. «La forza del cristianesimo deve essere la sua capacità di tornare a ripresentarsi come teoria della salvezza e come teoria delle cose ultime, come contatto, comunione con l’eterno».
L’appello del Gesù rivoluzionario effettivamente esistito nella storia ha bisogno del fondamento trascendente e universale, radicato nel mistero, offerto dalla fede nel Cristo dalla Chiesa primitiva.
Alla radice di questa posizione c’è un’idea dell’incarnazione e della stessa trascendenza di Dio diversa da quella. Lo ha chiarito lo steso Mancuso presentando il suo libro al Palazzo Ducale di Genova. Alla domanda se Gesù fosse solo un uomo o anche Dio, ha risposto: «Era sia uomo che Dio, ma bisogna capire cosa si intende con questa espressione. Tra umanità e divinità non c’è un fossato invalicabile. Come dicono le grandi religioni, noi dobbiamo arrivare a sentire questa identità che sta tra il mistero divino e il mistero umano, quindi sì, Gesù era il figlio di Dio ma non era l’unico, sono convinto che anche qui in questa sala ce ne sono, perché il divino non è “altro” rispetto all’umano, ma piuttosto la perfezione dell’umano. Gesù ha portato a compimento la missione di essere a immagine e somiglianza di Dio».
Il post-teismo di Paolo Gamberini
Non possono non venire in mente le tesi care al filone del post-teismo, per esempio a quelle di Paolo Gamberini, il quale, nel suo lodevole sforzo di «ripensare il cristianesimo oggi», ha rimesso in discussione il modo tradizionale di concepire il rapporto tra Dio e il mondo. In un articolo su «Settimana News» dello scorso 30 agosto e nella risposta alle obizioni, il noto teologo prende atto che «il concilio di Nicea ha voluto “decidere” della distinzione tra creatio ex nihilo e generatio de substantia Dei patris (homoousia), definendo Cristo, a differenza delle creature, «generato, non creato», ma, in questo modo, «ha introdotto un’epocale scissione (decisione) tra Dio e mondo. L’uomo Gesù è stato isolato dalle altre creature, per riconoscerne così la sua divinità. Il risultato è che il Dio è stato pensato “senza” la creatura».
Per rimediare a questa unilaterale separazione, Gamberini propone di superare la contrapposizione tra “generazione” e “creazione”. Per lui, anche «iI mondo è stato creato dall’essenza divina (ex essentia dei). Il Figlio dipende dal Padre, così come il mondo da Dio». In questo senso, l’universo creato fa parte necessariamente di Dio, esattamente come il Figlio in cui sussiste. «Riconoscere che il mondo è “da Dio” e “sussiste” nel Logos significa affermare che l’essere del mondo non è altro da Dio, ma è lo stesso essere in modo differente: assoluto “il Dio” e relativo “il mondo”». «Dio e mondo sono i due modi con cui la sostanza divina (θεός) si definisce. Il modo “infinito” della sostanza è il Dio (ὁ θεός). Il modo “finito” della sostanza è la creatura».
A questo punto, evidentemente, appare superata l’idea – su cui tutto il vangelo e la tradizione ebraico-cristiana sono fondati – di un Dio trascendente che crea il mondo con un atto libero e potrebbe esistere anche senza di esso. Da qui la domanda retorica «Il teismo è l’unica forma di cristianesimo possibile? Il teismo è l’unica e sola forma della fede cristiana?».
Ma da questo superamento del teismo deriva un altro modo di intendere anche l’incarnazione: «Il Logos incarnato non va inteso nella sua esclusività dell’uomo Gesù ma comprende e si estende a tutto il creato. Se da un lato si afferma che “questo” Gesù è Logos, si deve affermare anche che tutto ciò con cui questo Gesù è collegato (carne della sua carne!) è assunto dal Verbo. La grammatica ipostatica (Gesù è il Logos) indica un’identificazione che non si ferma a questo Gesù ma al creato intero. Questa è la dimensione cosmica dell’incarnazione».
È evidente la convergenza con la posizione di Mancuso. Anche per Gamberini Gesù non è il Logos incarnato, ma solo una sua manifestazione tra le tante che costellano il mondo e l’umanità.
Due considerazioni
Non è questa, evidentemente, la sede per una puntuale analisi critica di queste posizioni, che peraltro richiederebbe un confronto diretto con i testi, di cui qui abbiamo riportato solo le sintesi essenziali fatte dai loro autori. Possiamo, però, basandoci su queste ultime, fare alcune considerazioni.
La prima è che all’origine dell’esigenza di un neo-cristianesimo stanno la sincera preoccupazione per la progressiva scristianizzazione dell’Occidente e la giusta esigenza di dare della tradizione cristiana una versione più vicina alla sensibilità degli uomini e delle donne di oggi. Meritano dunque attenzione e rispetto tutti i tentativi fatti in questa direzione.
E tuttavia c’è da chiedersi – e questa è la seconda considerazione – se quello che resta, dopo l’eliminazione della divinità di Gesù e, più a monte, dello stesso Dio Padre a cui Gesù si rivolge come a una Persona trascendente, si possa ancora considerare “cristianesimo”. In questa rilettura verrebbe meno, infatti, l’annuncio centrale che costituisce l’originalità di questa religione rispetto a tutte le altre, e cioè l’incarnazione, che da un lato suppone un Dio radicalmente “altro” rispetto al mondo, dall’altro afferma che questo Dio ha scelto, per un atto d’amore, di entrare nella storia, facendosi Egli stesso uomo, per scendere fin negli abissi più profondi del male e redimerlo con il suo sacrificio.
Privata di questo, la “nuova” religione annunciata da Mancuso e da Gamberini assomiglia molto, in realtà, a tante altre che considerano Gesù, al pari di Buddha, di Confucio e di tutti i grandi spiriti della storia, come maestri di saggezza, in cui si esprime una divinità che non è “Qualcuno”, ma “Qualcosa”, e che pervade tutto.
Ciò è particolarmente evidente nella interpretazione di Mancuso. A dire il vero la contrapposizione tra il Gesù della storia e il Cristo della fede risale a una celebre conferenza di Martin Käler, nel 1892. E da allora essa ha costituito il filo conduttore di tute le interpretazioni dell’evento cristiano, segnate da un’alternanza tra chi ha privilegiato Gesù, il personaggio storico, rispetto al Cristo , l’idea, e chi ha fatto il contrario . Ciò che costituisce l’originalità della posizione di Mancuso è che egli si propone di tenere insieme le due figure.
È ciò che egli chiama «distinguere per unire a un livello più alto». Solo che la distinzione si dà tra aspetti di una stessa realtà – sono distinti il colore di un oggetto e la sua larghezza – ed è stata già ampiamente utilizzata dalla teologia per parlare di Gesù al tempo stesso come uomo e come Figlio di Dio. Quello che Mancuso fa, invece, è di distribuire queste caratteristiche su due personaggi diversi, radicalmente separati l’uno dall’altro, e spesso contrapposti l’uno all’altro. La sua, perciò, non è una distinzione, ma una separazione. E a questo punto unire le due figure diventa una somma arbitraria di realtà differenti.
Che rapporto ci può essere tra il profeta-guaritore, estraneo ad ogni figliolanza divina, effettivamente esistito, e il Risorto frutto solo della fede dalla comunità cristiana? A renderlo impossibile è la stessa separazione a priori, fatta dall’autore, tra una dimensione storica che esclude la compenetrazione col trascendente e una trascendenza che non può essere cercata nella storia.
Se poi, in nome della «identità che sta tra il mistero divino e il mistero umano», la divinità di Cristo si riduce a un’apertura all’universalità di una legge morale, di cui ogni essere umano può essere rappresentante quanto Gesù, la Buona Notizia che Dio, Dio in persona, si è fatto uomo, assumendo la nostra vita in ogni suo aspetto, viene definitivamente vanificata.
È veramente questo che può restituire al cristianesimo il suo fascino agli occhi dei nostri contemporanei? Eliminare la scandalo dell’incarnazione della crocifissione – ma anche della resurrezione – di Dio, banalizzando il vangelo come un messaggio di giustizia e un’apertura generica al mistero forse lo renderebbe più gradito perché più inoffensivo, ma non certo più interessante. Soprattutto, al di là del gradimento o meno di cui sarebbe oggetto, lo svuoterebbe della sua carica rivoluzionaria, quella che duemila anni fa ha provocato la reazione dei contemporanei di Gesù, quando, decisi a lapidarlo, gli dissero, «perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,33).
Ci sono/ci siamo! Eccoci!!!
Caro Giuseppe, un punto decisivo delle tue considerazioni consiste nell’affermazione che Mancuso e Gamberini negano “l’idea – su cui tutto il vangelo e la tradizione ebraico-cristiana sono fondati – di un Dio trascendente che crea il mondo con un atto libero e potrebbe esistere anche senza di esso”. Questa idea (che potrebbe anche essere vera) certamente NON è “nel vangelo” né “nella tradizione ebraico-cristiana”, ma nasce – secondo tutti gli storici della filosofia occidentale – nell’ambito della speculazione islamica medievale. Che tu non lo sappia mi stupirebbe; ma se lo sai, perché continui con l’antiquata narrazione di una Bibbia che proporrebbe una metafisica creazionistica? Quale biblista contemporaneo (ebreo, cristiano, musulmano o agnostico), in grado a differenza di Agostino e Tommaso d’Aquino di leggere l’ebraico e il greco, sottoscriverebbe che nella Bibbia esiste una “creatio ex nihilo”?
Sulla creazione v. Secondo libro dei Maccabei, cap. 7, v..28. «Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l’origine del genere umano».
Comunque nel chiaroscuroio non dico che il vangelo ne parla, ma che su di esso si fonda, perchè è centrato su un Dio personale, che non si identifica col mnndo nè è l’altra faccia del mondo, ma è «nei cieli», e che, poichè veste i gigli dei campi e nure gli uccelli del cielo, si prende cura anche degli uomini. Tutto il vangelo è un dialogo tra due persone, Gesù, il Figlio, e il Padre. I biblisti sicuramente lo sanno.
Grazie di questa riflessione. La formula “vitiana” o “mancusiana” – “distinguere per unire a un livello più alto” potrebbe dare l’impressione di riecheggiare la lezione di Tommaso. Ma la contrapposizione di fatto affermata tra Gesù e Cristo, e la chiamata in causa del “più alto livello”, svelano piuttosto una sottesa logica hegeliana, dialettica prima e infine sintetica. Non so se lo stesso valga per Gamberini e la sua coincidenza tra il modo infinito della sostanza (il Dio) e il modo finito della sostanza (il mondo), nel cui caso sembra riecheggiare invece il panteismo spinoziano (Deus sive natura). Questioni tardo moderne, che rigurgitano in questa nostra stanca “contemporaneità”, propensa a vivere di rendita (hegeliana o spinoziana che sia), accettando perciò il lascito testamentario (culturale e intellettuale) dei moderni che ci hanno preceduto. Non invece di rimandarlo al notaio, preferendo restare a un altro tipo di coincidenza, quella tra Scrittura e Tradizione. Peraltro non c’è vera coincidenza se non c’è reale differenza. Altrimenti c’è solo confusione, o sintesi che chiamar la si voglia. Romano Guardini, che era davvero al contempo filosofo e teologo (due profili epistemologici differenti, perciò distinti, ancorché non distanti), parlò di “Gegensatz”, ossia di polarità: relazione reale tra due estremi realmente diversi, diametralmente opposti, che di per sé non obbedirebbero mai al detto latino “asinus asinum fricat”, ma che posti in un rapporto polare, si esigono a vicenda, inverandosi reciprocamente, appunto come il Polo Nord e il Polo Sud, che sono poli solo se considerati in “opposto” riferimento tra di essi. La polarità tra Nord e Sud, TUTTAVIA, riverbera pur sempre solo analogicamente sulla polarità tra Dio e il suo mondo, o tra l’infinito e il finito per citare il De Coelo di Aristotele (o tra il finito e l’infinito, per riprendere la correzione tommasiana). La polarità tra Dio e il mondo, e tra il Servitore Unto-Inviato e il Figlio Eterno, deve infatti essere innestata dall’asimmetria: come tra l’in-alto e il dentro (e non tra l’in-alto e l’in-sotto; o tra il dentro e il fuori). Dio è in alto e dentro, trascendente e intimo, come del resto aveva già capito Agostino d’Ippona: il vangelo di Gesù-il-Cristo, la vicenda di colui che fu ed è e sarà “Gesù e Cristo”, questo ci viene a rivelare.
Massimo caro, sai quanto stimo la tua preparazione e la tua raffinatezza intellettuale. Ma ti pregherei, visto che siamo sul web e cerchiamo di servire nella ricerca della Verità una cerchia quanto più ampia di sorelle e di fratelli, di rispondere con nettezza a queste tre questioni che Mancuso, Gamberini e moltissimi altri teologi si pongono (non a partire da Spinoza ma dal Secondo Testamento): a) Gesù sapeva di essere Dio in senso inedito, unico, incomparabile, irripetibile? b) Ammesso che lo sapesse, si è mai presentato come tale ai discepoli? c) il ‘centro’ dell’annunzio originario di Gesù Cristo (il suo ‘vangelo’) è l’identità sua personale o l’identità del Padre (Jahvé) o l’imminenza del “regno di Dio” nella storia terrena? So che ti occupi di tante questioni rilevanti, ma se dovessi trovare tre minuti per me e per chi ci legge te ne sarei grato come compagno di ricerca ma anche come fratello di fede autenticamente cristiana (preoccupato dello svuotamento delle chiese ancora poco libere dalla predicazione mitica).
Man mano che leggevo questo testo mi sorgevano interrogativi che ho poi, puntualmente, ritrovato nelle conclusioni, sulle quali convengo, del prof. Savagnone
Caro Giuseppe, il commento di Augusto chiama in causa una questione decisiva: il modo di leggere la Bibbia. All’inizio di settembre ti ho chiesto, ma non ho avuto risposta, se avevi letto il mio articolo, che ti avevo segnalato a luglio, sul tema: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-bibbia-un-libro-sacro/#_edn8
Se per caso ora lo avessi letto, mi farebbe piacere avere un tuo parere.
Caro Elio, hai ragione e mi scuso della mancata risposta, dovuta a semplice distrazione (l’età…). Ho rimediato leggendo adesso il tuo articolo, che condivido senz’altro quando denunzia gli approcci sbagliati che in passato spesso hanno viziato la lettura della Bibbia. Tu però vedi solo gli aspetti negativi dell’influsso diu questo testo sulla libertà di pensiero. Io credo che invece esso abbia anche dato un grande stimolo alla ragione, oltre che alla fede, portando alla scoperta di concetti come quello di persona, di creazione, di fraternità, che hanno permeato la nuova cultura occidentale differenziandola da quella classica. Non è peraltro necessario essere credenti per recepire il valore di queste prospettive. Chi, poi, dice di essere cristiano, come Mancuso, come cGamberini, come Augusto, non può liquidarle come un orpello, solo perchè le chiese si svuotano. Anche Gesù fu abbandonato dai suoi contemoranei, e questo non lo spinse a rimodellare il suo messaggio in base alla sensibilità delle folle. Ovviamente questo non implica la rinunzia a una continuo ripensamento del messaggio rivelato.Ma la proposta di questi novatori non rinnova la tradizone, la getta a mare .
Vorrei solo ricordare l’assioma patristico: ciò che non è assunto non è salvato. Un Gesù solo
umano o un Cristo solo Dio non toccano la storia e la realtà concreta della creatura umana. Ogni separazione rischia sempre di annullare la verità dell’incarnazione e quindi la verità della salvezza in Gesù Cristo, Dio e uomo. E non è possibile un cristianesimo se non ripetiamo con Giovanni a Natale: E il
Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Sono poi d’accordo che il dogma e i dogmi devono essere riletti in modo che siano significativi per gli uomini e le donne del nostro tempo. Perché la fede non è archeologia, ma vive nella storia e deve poter essere comprensibile oggi, perché la fede è un incontro con Gesù Cristo