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Dalla sete di vendetta alla sete di giustizia. Cartabia, Martini e la giustizia riparativa.

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di Babak Farrokhi, da https://www.flickr.com/photos/farrokhi/8581420679

Il male: un fatto tutto umano

Matteo, neomaggiorenne toscano, la notte del 25 Maggio del 2011, ha incontrato il male, un accidente che si instilla nella persona, rendendola autrice dei peggiori crimini. Matteo, quella notte, dopo avere partecipato ad un rave party ed aver assunto stupefacenti, sceglie di farsi ospite del male, mettendosi al suo servizio. È per questa scelta che Antonio, un carabiniere, ha trovato la morte, dopo una lunga agonia causata dalle violente percosse infertegli da Matteo, con calci e sprangate. La “colpa” di Antonio, il carabiniere, è stata soltanto quella di aver compiuto il suo dovere di tutore della pubblica sicurezza, interrompendo – quella notte e per un controllo – la notte brava del giovane Matteo, che reagì – usando le parole dei magistrati – con “ferocia inaudita” e “con spietatezza e lucidità”.  

Matteo è un mostro che ha privato della vita un uomo e di un marito la sua donna? No, affatto, era un ragazzo di diciott’anni, uno come tanti, che ha commesso un gesto inqualificabile, orribile. Non è una bestia – purtroppo – è un uomo, come lo siamo noi. I mostri non esistono, le bestie, invece, esistono, ma non prendono a sprangate e calci i carabinieri, al massimo mordono, ma non si fanno di stupefacenti e non frequentano i rave party, non reagiscono male ad un alt ad un posto di blocco, semplicemente perché non hanno la patente e non guidano le auto.  

Matteo con il suo gesto tutto umano, sia nella sua esecuzione che volizione, ha rovinato, oltre la sua vita, tante altre vite, prima tra tutte proprio quella di Antonio, un carabiniere, pestato a morte e quella della sua famiglia.

Il ruolo dello Stato: ripristinare l’ordine del ‘patto sociale’  

Da un lato una vittima, dall’altro un carnefice, come per ogni reato.  

Qual è la risposta dello Stato a questo evento così doloroso? È il processo penale, quel complesso di atti e fatti: memorie, ordinanze, decreti, sentenze e ancora interrogatori, esami, udienze, volto ad accertare un fatto e riaffermare il diritto. È tutto quello che segue ad un reato. Lo Stato – infatti – davanti ad un evento, come quello descritto, non può volgere lo sguardo dall’altro lato, deve riaffermare sé stesso, il complesso di valori, di diritti e obblighi, di libertà e doveri compromessi dal reato.  

Il processo, che non è altro che la forma della giustizia, è la sede in cui accertare la violazione di una norma giuridica, cioè di un patto sociale tra i cittadini, per ristabilire l’ordine. L’ordine giuridico compromesso dal reato è nel processo ristabilito, manifestato, enunciato – in nome del popolo italiano – nella sentenza di condanna.  

Come ho recentemente letto in un suo libro, la Prof.ssa Marta Cartabia, tra le più autorevoli giuriste italiane, facendo proprie le parole di Carlo Maria Martini, molto vicino al tema dei diritti dei detenuti, sostiene che “di fronte alla delinquenza e al crimine è necessario reagire opponendosi al male”, a dire che, nonostante la stessa Costituzione – così come un’impellenza di matrice morale – impongano il rispetto della dignità del reo, la valorizzazione dei percorsi rieducativi e risocializzanti, il reato è pur sempre espressione del male e il male deve essere stigmatizzato. E il carcere è una forma di stigmatizzazione del male, proporzionalmente crescente al crescere della gravità del reato a cui non è possibile rinunciare se non rinunciando ad un sistema giuridico, in particolare penale, che a differenza di uno sterile regolamento condominiale, si prefigge di offrire un decalogo valoriale e che ancor prima di punire intende elevare nell’educare.  

Tutelare la giustizia, ma mantenendo al primo posto l’importanza della riabilitazione

La “macchina della giustizia” – quella degli uomini – con riferimento al caso di Matteo si è messa subito in moto: il fermo, poi le misure cautelari, il processo, l’accertamento del fatto di reato e la condanna di primo, poi di secondo grado. E infine l’esecuzione della pena, che – ancora oggi – Matteo sta scontando in carcere, pur godendo di alcune misure alternative che ne hanno modificato il tenore, in ragione della necessità di rieducare l’autore del reato. Qualcuno “storcerà il naso” o “si straccerà le vesti” davanti al fatto che Matteo non stia marcendo in qualche patria galera, che Matteo non stia soffrendo, dietro le sbarre, anche solo in parte, quei stessi patimenti che egli stesso ha voluto riservare al povero carabiniere quella maledetta notte. 

Se Matteo non marcisce in galera, se nessuno ha fuso la chiave della sua cella è perché a decidere sulle sorti di Matteo è la legge e la Costituzione, non anche l’uomo della strada. Ciò non vuol dire – proprio perché i giudici decidono “in nome del popolo italiano” – che i magistrati non debbano interrogarsi sul perché, sempre più numerosi sono nell’opinione pubblica gli attestati di profonda sfiducia nella giustizia. Non si tratta però, come forse da un po’ di tempo fa il legislatore, di appoggiare acriticamente il volere delle persone, del “popolo”, ma al contrario di comprenderlo ed elaborare – nel rispetto della legge – nuove soluzioni, con creatività. Frenando o quantomeno arginando quel dilagante senso d’ingiustizia che, soprattutto le vittime, percepiscono.  

Premesso che ogni singola sentenza, a maggior ragione se definitiva, è in quanto tale legittima, anche quando percepita come ingiusta, non ci si può certo accontentare. Al di là di pretestuose e scomposte critiche alla giustizia da parte dell’opinione pubblica, è vero che una parte di questa esprime sentimenti negativi nei confronti delle pronunce dei magistrati che non possono rimanere ancora inascoltati. È sete di giustizia quest’ultima e occorre dare da bere agli assetati. E quando mi riferisco ad una risposta creativa da parte dei magistrati e dal legislatore mi riferisco proprio a questa legittima sete di giustizia.  

La risposta a questa sete non è certo da rintracciarsi nella costruzione di nuovi muri carcerari, ma – come diceva proprio Carlo Maria Martini – nella costruzione di nuove persone. E per questo non è importante inasprire le pene, moltiplicare le fattispecie di reato, al contrario, è importante ascoltare, soprattutto le vittime ed anche i carnefici.

Risanare le relazioni per ricomporre le fratture sociali

La storia di Matteo è una storia in cui il carnefice incontra la vittima e la vittima il carnefice. E l’incontro è la sede della parola e la parola è rilevatrice dei bisogni; basta tendere l’orecchio per percepirli. E con creatività trasformare quei bisogni in soluzioni: istituti giuridici, prassi giudiziali e così via.  

La storia di Matteo, il quale – anche con la sua mamma – ha progressivamente costruito un intreccio relazionale con la vedova del carabiniere ucciso ci dice più di qualsiasi articolo scientifico riservato agli addetti alla materia. E cosa ci dice? Una cosa che Carlo Maria Martini, nelle sue riflessioni sul carcere e sulla pena, aveva ben capito – come solo un profeta sa fare – cioè che il reato non è solo la violazione di una norma giuridica, ma è anche la frattura di un rapporto umano e per riflesso di tante altre relazioni intersoggettive, familiari, amicali, etc. La frattura, secondo il cardinale Martini, non richiede, in altre parole, semplicemente e soltanto una risposta processuale, che altro non è che una risposta che guarda al fatto di reato come lesione dell’ordinamento, compromesso dall’azione criminale, ma altresì una risposta più specifica che guardi dritto nei volti dei protagonisti del reato. E che dia sempre più spazio alla vittima (la quale oggi ha un ruolo marginale – in particolare patrimoniale – nel processo penale) perché le sia data la possibilità di manifestare il suo dolore, che è frutto di quello che non è semplicemente un reato, ma l’evento – molto spesso – che gli ha stravolto la vita per sempre. Oggi nel processo la vittima “entra” per essere liquidata economicamente per il danno sofferto in conseguenza del reato; nella prospettiva di Martini e in quella della giustizia riparativa, al contrario, per poter manifestare tutto il proprio dolore, per raccontare la propria storia, alla comunità, quindi e soprattutto all’autore del reato, al suo carnefice.  

Chi ha sete di giustizia, a differenza da chi ha sete di vendetta, a lungo andare, non importa una pena esemplare (che tra l’altro sarebbe illegittima), ma uno spazio d’ascolto, per affermare chi si era e chi è dopo il reato. Questo spazio è quello che Martini chiama lo spazio del riconoscimento. È in questa sede, grazie alla possibilità della vittima di raccontarsi, che l’autore del reato – fermo restando il suo diritto di difesa – può conoscere del dolore provocato con la sua azione. 

Uno ‘spazio’ per il dolore e il riconoscimento

Nel libricino scritto a “due mani” da Adolfo Ceretti e Marta Cartabia, dal titolo “Un’altra storia inizia qui”, dal quale ho tratto spunto per scrivere questo articolo, emerge chiaramente la necessità di garantire maggiore spazio alla vittima e proprio in un’ottica volta ad offrirle la possibilità di manifestare il dolore, per evitare che resti inesploso nel cuore. E – nei casi peggiori – trovi un illusorio ristoro con altro male, verso se stessi o verso il prossimo. Il carcere e il carnefice non possono e non devono essere il luogo in cui sfogare il proprio dolore. E invece nell’ascolto del dolore narrato dalla vittima e nel riconoscimento del carnefice di averlo provocato che prende le mosse l’iter della riparazione.  

Dante, in particolare nella IX bolgia infernale, incontra Bertan De Born, poeta provenzale, autore di uno scisma familiare. Il contrappasso di Bertan, spedito all’inferno per essere stato colui che divide (in greco “dia – ballo”, da cui la parola diavolo), consiste nell’essere a sua volta diviso. Il poeta si fa spazio tra le tenebre infernali mostrandosi a Dante e Virgilio come un corpo senza testa, che in una mano sorregge il suo capo. La sorte di chi divide è di vivere a sua volta diviso, ma guardandosi, riconoscendosi “diavolo”, nel senso etimologico del termine.  

Beltran – come dovrebbe essere per ogni carnefice – dovrebbe essere messo nelle condizioni di riconoscere il proprio errore, meglio se per bocca della vittima. Ma se la storia dantesca si conclude col riconoscimento imperituro, senza speranza, la giustizia riparativa conosce un altro momento. Il compianto cardinale Martini, infatti, al riconoscimento accoppia il momento della riconciliazione, ossia dell’incontro. Così come è stato per Matteo e la vedova del carabiniere ucciso. Grazie alla mamma di Matteo, la quale riuscì a raggiungere la vedova, quest’ultima è stata messa nelle condizioni di essere ascoltata, di raccontarsi. Matteo, la mamma, l’hanno ascoltata, così come l’assassino del carabiniere, per la moglie del carabiniere, ha assunto un volto, una voce, una storia. Quello del riconoscimento è un momento bidirezionale, quindi reciproco, in cui vittima e carnefice si riconoscono entrambi esseri umani, in quanto tali più o meno feriti.  

Dal riconoscimento – come detto – il passo successivo è l’incontro. E attenzione non è necessariamente il perdono o un sentimentale abbraccio, nulla di tutto questo. L’incontro o come lo chiama Carlo Maria Martini la riconciliazione è la riunificazione dell’Io. Perché solo ri–conoscendosi ci si può riunificare. Matteo, per esempio, ha da poco fondato una comunità che si occupa di giovani ragazzi in difficoltà, che hanno alle spalle una storia che Fabrizio De Andrè avrebbe chiamato (senza condividerne certo il retropensiero “benepensante” che c’è dietro questo attributo) “sbagliata”. E così la vedova, che è soprattutto una donna con un futuro, grazie all’incontro con Matteo ha fatto si che il desiderio del marito, prematuramente scomparso, aiutare i più giovani, trovasse compimento proprio attraverso il suo carnefice. . 

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