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“Tutti sono dei nostri e noi siamo di tutti” – Lectio Divina su Mc 9 38-43; 45; 47-48

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Il Vangelo di oggi: Mc 9 38-43; 45; 47-48

38Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». 39Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: 40chi non è contro di noi è per noi.
41Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.

42Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. 43Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. […] 45E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. […] 47E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, 48dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue.

La liturgia della Parola di questa XXVI domenica ci invita a riflettere su come il vento dello Spirito soffi oltre i nostri steccati, perché «Dio può far nascere i figli di Abramo anche da queste pietre» (Mt 3,9).

La prima lettura: la libertà dello Spirito

La prima lettura, tratta dal libro dei Numeri, è una delle narrazioni delle mormorazioni del popolo d’Israele nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Stanco della manna, Israele rimpiange il tempo in cui, mentre era schiavo, mangiava pesce e verdura «ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente […] Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Nm 11,5-6).

Davanti alla mormorazione di un popolo che non apprezza il dono della liberazione ricevuta, Mosè appare provato e stanco, tanto da arrivare a rimproverare Dio con un linguaggio molto forte, per il peso ricevuto: «L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: “Portalo in grembo”, come la nutrice porta il lattante, fino al suolo che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? […] Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire» (Nm 11,12-15).

Come Geremia (cfr. Ger 20,14) o il profeta Elia (cfr. 1Re 19,4), Mosè, gravato dal peso di un’immensa responsabilità, manifesta accoratamente il suo sconforto.

Dio non si adira né rimprovera Mosè per la sua incredulità, decide invece di alleggerire il peso della sua responsabilità affiancandolo con 70 anziani, su cui viene effuso lo Spirito perché possano coadiuvarlo nei suoi compiti. Ma la profezia tocca anche due uomini, rimasti nell’accampamento che, investiti dallo Spirito di Dio, incominciano a profetizzare, suscitando il forte disappunto di Giosuè, che vorrebbe che il carisma fosse completamente sottomesso al potere.

Mosè reagisce invece in maniera molto diversa, accogliendo con favore ogni manifestazione di bene: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore!» (Nm 11,29). Non si tratta di rendere indipendente la profezia dall’istituzione, ma i doni carismatici, come fa notare Paolo ai corinti, non possono prescindere dalla carità e dall’edificazione della comunione ecclesiale. Al contempo occorre vegliare per non imprigionare lo Spirito nelle nostre planimetrie disegnate a forma delle istituzioni: lo Spirito soffia dove vuole, anche al di la dei nostri steccati, anche su coloro che noi non riteniamo degni.

La comunità si fortifica quando ha cura dei deboli, non quando erige steccati

La pericope evangelica si pone sulla stessa direzione, nell’episodio di un esorcista che scaccia i demoni nel nome di Gesù. Era prassi diffusa compiere esorcismi attraverso il ricorso ad un nome potente, eppure i discepoli, per bocca di Giovanni, sembrano scandalizzarsi perché egli non appartiene al loro gruppo. L’episodio è inserito tra la scena di Gesù che accoglie i bambini e l’ammonimento, subito dopo, a non scandalizzare i piccoli: sembra che Marco voglia mettere in guardia la sua comunità mostrando come il vero scandalo sia nel fatto che, coloro che si irrigidiscono nel volere difendere l’ortodossia, si mostrino poi insensibili nella difesa dei piccoli. I piccoli ai quali l’evangelista fa riferimento sono i credenti ritenuti insignificanti, quei credenti che hanno bisogno di una cura speciale perché davanti agli scandali possono peccare e perdersi.

Marco, a una comunità in cui si manifesta da una parte un’ortodossia identitaria forte nei confronti degli estranei al gruppo, dall’altra il disprezzo dei deboli che sono all’interno del gruppo, pone davanti la necessità di rimettere al centro l’essenziale e lo fa con un linguaggio forte, richiamando coloro che ritengono di essere i custodi della comunità a non scandalizzare i più “fragili”.

«Mosè e Gesù, maestri della fede, ci invitano a non piantare paletti ma ad amare gli orizzonti, a guardare oltre il cortile di casa, a tutto l’accampamento umano, a tutta la strada da percorrere: alzate gli occhi, non vedete quanti semi dello Spirito volano dappertutto? Quante persone lottano per la vita dei fratelli contro i démoni moderni […] E se anche sono fuori dal nostro accampamento, sono comunque profeti. Sono quelli che ascoltano il grido dei mietitori non pagati (Giacomo 5,4) e ridanno loro parola, perché tutto ciò che riguarda l’avventura umana riguarda noi. Perché tutti sono dei nostri e noi siamo di tutti» (E. Ronchi).

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