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Non è tutto inciucio quello che sembra: i partiti e il compromesso.

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Di Presidenza della Repubblica, Attribution, Collegamento
Di Presidenza della Repubblica, Attribution, Collegamento

I risultati elettorali delle politiche dello scorso 4 Marzo, giunti nel corso della notte e della giornata del 5, come era prevedibile hanno delineato un parlamento frammentato, effetto diretto ed immediato di una nuova legge elettorale prevalentemente proporzionale, il  Rosatellum.

La legge elettorale, richiamando una definizione che ne diede la mia professoressa di diritto costituzionale al primo anno di giurisprudenza, è quella legge che regola il meccanismo mediante il quale i voti degli elettori si trasformano in seggi elettorali.

Insomma si tratta di un procedimento fondato su calcoli algebrici, spesso particolarmente complessi, attraverso i quali si raggiunge il fine di individuare chi siederà in Parlamento.

A proposito dell’importanza dei procedimenti, anche elettivi, Norberto Bobbio, autorevole giurista e pensatore del Novecento, ha sostenuto la tesi della stretta correlazione intercorrente tra la bontà dei fini e quella dei procedimenti impiegati per raggiungerli.

Secondo il giurista torinese il giudizio su di un determinato risultato, qualsiasi esso sia, non può non passare da un preliminare giudizio sul mezzo per raggiungerlo.

Insomma la giustezza del procedimento condiziona la correttezza del risultato che attraverso quel procedimento si intende raggiungere.

Tale discorso può farsi, a parere dell’autorevole giurista, anche con riferimento alla legge elettorale, in quanto procedimento, come detto, atto a trasformare i voti espressi dai cittadini, titolari del diritto all’elettorato attivo, in seggi elettorali.

354px-Guido_Calogero_e_Norberto_BobbioBobbio sostiene che una legge che riconosca al partito che ha ricevuto la maggioranza relativa dei voti un premio di maggioranza (ossia un numero di seggi in più sufficienti a garantire la governabilità) non è una buona prassi e quindi – sulla base del suo ragionamento – non può dare buoni risultati.

Ciò non toglie che la governabilità sia un bene indispensabile per il funzionamento della democrazia. Ma allora qual è il meccanismo più giusto? Attraverso quale procedimento elettorale si riesce ad ottenere un esito che sia accettabile e in particolare idoneo a garantire la governabilità senza ricorre a rimedi come quello dell’assegnazione del premio di maggioranza al partito che abbia ottenuto più voti? Certamente non può essere solo quello di innalzare sempre di più il quorum per ottenere il premio né di abolire il premio di maggioranza stesso, ma al contrario quello di valorizzare il ricorso alla prassi dell’accordo tra partiti, spogliandola dall’accezione negativa acquisita negli ultimi anni, e riconoscendole una rinnovata dignità.

Non v’è dubbio che la nostra società sia frammentata, disorientata, sempre più multietnica, e che esistano fasce di popolazione tra di loro distantissime e che ciò comporti necessariamente una risposta politica altrettanto frammentata e cangiante. Insomma ad una democrazia sempre più pluralista non può che corrispondere un’offerta politica altrettanto disomogenea e alterativa.

Il partito politico infatti dovrebbe essere lo strumento al quale i cittadini ricorrono per consegnare le proprie istanze, nella consapevolezza che lo stesso le filtrerà, dando vita ad una soluzione, atta ad individuare l’indirizzo politico che quel partito intenderà perseguire.

Ma i partiti politici, oggi, sono davvero questo? La percezione diffusa è quella di un allontanamento della politica dai cittadini, è infatti frequente la critica rivolta ai politici di “non avere più il polso del Paese”.

Questa degenerazione rende, a mio parere, indispensabile che i partiti tornino a fare i partiti, riallacciando le relazioni con gli elettori e mantenendone saldi i rapporti nel tempo, superando la criticabile prassi dei candidati cosiddetti paracadutati, triste riprova dello scollamento tra comunità e partito a cui si faceva riferimento.

Insomma, il fine preliminare dei partiti non dovrebbe essere quello di attrarre potenziali elettori sulla base di precostituiti programmi, bensì, all’opposto, quello di selezionare istanze di potenziali elettori al fine di redigere programmi.

Purtroppo la funzione del partito ad oggi non è più quest’ultima; cosicché di loro non si sente più una reale necessità ed è per questo che i movimenti prendono il posto dei vecchi partiti. La stessa nascita di coalizioni politiche eterogenee, nate qualche mese prima del voto, quali rassemblement di storie ideologiche lontane, così come gli acrobatici “cambi di casacca” di alcuni deputati nel corso della legislatura, sono tutte dimostrazioni del fatto che il partito, così come i nostri padri lo hanno pensato, ha perso la sua reale funzione e non, al contrario, che siano morte le ideologie.

Questa mutazione funzionale dei partiti, non più fucina di idee ma bacino di voti, è la dimostrazione della correttezza del ragionamento “bobbiano” più sopra richiamato, nella misura in cui procedimenti elettorali a vocazione maggioritaria e caratterizzati dalla fissazione per una governabilità a tutti i costi – come sono stati quelli dell’ultimo ventennio, alcuni risultati persino illegittimi – hanno prodotto un effetto negativo sulla politica, in particolare scoraggiando le prassi democratiche e legittime del compromesso. Il compromesso ha oramai assunto, attraverso una “manomissione delle parole” nel lessico della politica, un’accezione negativa; l’accordo tra partiti oggi è sinonimo di “inciucio”, a dimostrazione della stigmatizzazione assunta nei confronti di qualsiasi tentativo di sintesi trai partiti.

A tal punto penso, a dispetto di quello che sostiene la maggioranza, che non si possa più prescindere da procedimenti elettivi che valorizzino l’attuale frammentarietà sociale e che siano in grado di rappresentare la società nella sua variegata coralità. Un sistema elettorale proporzionale è forse di tutti i sistemi elettorali possibili il procedimento che riesce a offrire i risultati migliori.

Credo che questo multipartitismo giovi alla democrazia e che non possa essere compromesso da leggi elettorali diverse da quelle a vocazione proporzionale. Ma ad una condizione: la riabilitazione del compromesso. La presenza di tanti partiti, ognuno senza una maggioranza assoluta, come nelle circostanze attuali, impone alla politica di confrontarsi vicendevolmente, svelando all’avversario una propria identità, selezionandosi così i soli bisogni reali realmente rappresentativi della volontà generale. La governabilità non va quindi regalata al primo arrivato, ma al contrario va guadagnata dai partiti sul campo dei compromessi, all’interno del Parlamento, intessendo relazioni orizzontali e cooperative, confrontandosi e soprattutto rinunciando alla prospettiva, invalsa grazie soprattutto a leggi elettorali che privilegiavano il primo arrivato, che la propria idea di Paese sia l’unica giusta e da perseguire.

Proprio in ragione di ciò, mi paiono lontane da una democrazia partecipata – seppur in perfetta sintonia con il passato politico più prossimo – le posizioni manifestate in questi giorni dai più grandi partiti italiani; in particolare da chi da un lato ha affermato la propria indisponibilità a qualsiasi accordo che non presupponga dall’altra parte del campo un’adesione puntuale alla propria idea di mondo e persino della propria compagine di Governo, e dall’altro di chi a priori sbarra la strada, per il solo fatto di non essere arrivati primi, a qualsiasi tentativo d’incontro con l’altro.

A questo punto bisogna arrendersi davanti allo stallo? Bisogna davvero constatare che è tutta colpa del Rosatellum?

Non lo credo per nulla; davanti ad un Parlamento diviso e multipartitico, e prima di tutto davanti un Paese dilaniato da profonde contraddizioni, non tutto è perduto. Questa legge elettorale, bistrattata e denigrata all’indomani della sua approvazione dai i suoi stessi padri infatti, come più volte abbiamo detto, può – forse a dispetto di quello che credevano i suoi fautori – non essere il male. Anzi a differenza delle precedenti questa legge, piuttosto che scoraggiare la sintesi tra i partiti, invita gli stessi ad incontrarsi, a “fare democrazia” e a rigettare una concezione autoreferenziale della politica e di, come dire, “autosufficienza ideologica”. La soluzione al “problema” della governabilità quindi non può essere quella di cambiare legge elettorale; al contrario, bisogna cambiare modo di agire e in particolare di fare politica riscoprendo la dignità dell’accordo e l’ autentica funzione dei partiti, recuperando ideologie sopite ma mai morte. In altre parole, bisogna ricominciare dalla consapevolezza che esiste un’altra parte, un altro diverso da me che bisogna cercare e incontrare quale che ne sia il costo per il mio partito: perché si sta giocando la sorte di una Nazione.

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