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Recensione a “Sulle spalle dei giganti”

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Raniero Cantalamessa, “Sulle spalle dei giganti”, ed. San Paolo 2014

trinità.jpgMosaici di lettere, parole, frasi, i libri sono anche scrigni di immagini che portiamo in e con noi. “Sulle spalle dei giganti. Le grandi verità della fede meditate e vissute con i Padri della Chiesa” di Raniero Cantalamessa suggerisce almeno tre icone: la prima, nata nell’Occidente latino a opera del vescovo inglese Giovanni di Salisbury è quella scolpita nel titolo dell’opera ed effigiata plasticamente in non poche chiese gotiche; la seconda è quella delle icone russe che, inscrivendo in un cerchio le Tre Persone Divine, allude alla vita trinitaria secondo modalità non meno penetranti dei versi del suo cantore San Gregorio Nazianzeno.

Rinnovarsi nella Chiesa ha sempre significato attingere alle limpide fonti della patristica che, anche nel Concilio Vaticano II zampillano nella Liturgia, rinvigoriscono la speculazione teologica, fornendo slancio persino allo stesso movimento ecumenico. L’autore, frate cappuccino e per lunghi lustri predicatore della Casa Pontificia, ha attinto al pensiero, meglio sarebbe dire alla vita, di otto Padri, quattro greci e quattro latini, sia per descrivere la verità di fede di cui ciascuno è araldo, sia per comprendere le modalità in cui queste dottrine, solo apparentemente astratte e lontane, possono aiutare il cristiano dei nostri giorni.

Ed ecco la terza icona sotto forma di fiaba: l’autore riprende l’idea che il filosofo Soren Kierkegaard affidò al suo diario secondo cui nel pensiero vivente dei primi Padri le più sublimi verità della nostra fede dormissero, simili a principesse in un castello fatato.

La preghiera e i sacramenti, ma anche lo studio serio e rigoroso, sono gli strumenti che abbiamo,

innestati nel noi della Chiesa, per ridestare queste principesse, affinché ci parlino istruendoci, pur se a distanza di secoli.

Saliamo sulle spalle del primo gigante: accettiamo il rarefarsi del respiro, le iniziali vertigini, quell’atto di umiltà che ci porta a vedere lontano non per l’acuità del nostro sguardo ma perché issati su un corpo robusto e fecondo. Dopo gli Evangelisti, primi giganti, ecco i Padri che ci battezzano, immergendoci in una fede vissuta più che astrattamente pensata, amata nella preghiera, e quindi difesa nelle controversie teologiche, grazie alla loro altezza noi, simili a nani, oltre a vedere più lontano scorgiamo più cose.

Siamo ad Alessandria d’Egitto e Sant’Atanasio, dalla sua cattedra vescovile, ridesta la Divinità di Cristo. Vissuto tra III e IV secolo d.C., è ricordato per molte attività sublimi: favorì il sorgere del Monachesimo, intrattenne rapporti con i vescovi d’Occidente, rivendicò la libertà della Chiesa anche in uno stato cristiano. Il suo apporto più originale però risiede nel rimuovere gli ostacoli che in ambiente greco venivano posti al Dogma della Divinità di Cristo. Tali aporie erano sussunte nel termine: “ingenerato”, a fronte del quale
Atanasio, che sa di non essere lo scopritore della Divinità di Cristo, difende la formula nicena del
“generato e non creato”.

Affermare che Gesù è Dio significa rigettare aprioristicamente tutte le formule che confondevano la Seconda Persona della Trinità con il Demiurgo, cioè quella sorta di “Dio minore” con cui nel Neoplatonismo si designa il creatore del mondo materiale, fatalmente destinato alla perdizione. Questa tentazione, che torna nello Gnosticismo di ogni tempo, individua una linea di demarcazione tra il Padre e il Figlio, mentre la formula nicena – contro ogni subordinazionismo – la rinviene tra il Figlio e le creature, affermando così la sua Divinità.

Vi furono momenti in cui la fede della Chiesa viveva nel cuore di un solo uomo che combatteva per una
catarsi cristiana dell’universo metafisico greco: lo faceva essendo lucidamente consapevole della
crucialità di questa battaglia, non solo per il suo tempo ma anche per il nostro. Sì, perché la sua difesa non nasceva da astratte speculazioni ma dalla dottrina della salvezza, cioè dalla consapevolezza stessa che in Cristo, vero Dio e vero Uomo, la Chiesa ha di essere salvata. Per questo la sua teologia si sposta dal cosmo all’uomo, valorizzando la tradizione ecclesiastica antecedente a Origene e a tutte le controversie legate agli sviluppi delle sue dottrine.

Proprio la soteriologia infatti, esige che l’uomo non sia assunto da un intermediario qualsiasi, ma da Dio
stesso: è il Verbo, eterna Parola del Padre che dando luce a ogni realtà la abbraccia in se stesso. Insomma, quella di Atanasio è una fede interiorizzata nel cuore, prima che professata con la bocca. Se ad un’idea si può opporre un’altra idea, cosa opporre alla vita? Nulla, se non un’altra vita. Rammentandoci questo, Atanasio, se da un lato fa rimanere la fede in Cristo fede in Dio oltre ogni filosofia, dall’altro ci ricorda che la teologia non è solo scienza. Il Dio con noi non è un oggetto neutrale: il Dogma niceno impedisce a Cristo di restare nel suo tempo ed al Vangelo di essere uno dei tanti libri religiosi dell’umanità, consentendogli di divenire Parola definitiva di Dio risorto che vive nello Spirito, detta a ogni uomo e a tutto l’uomo.

Lo Spirito, chiaramente avvertito come Persona Divina è la seconda Verità ancora attuale difesa da un gigante dell’ Oriente Cristiano: san Basilio. Prima della loro concettualizzazione formale le cose sono. La stessa fede, secondo Tommaso d’Aquino, non termina negli enunciati ma nella realtà. Spesso nel corso della sua storia la Chiesa si è invece fermata alle formule, che coniate divengono stendardi sotto i quali schierarsi più che segni esteriori di una appartenenza vissuta nel cuore.

La fede di Basilio nella divinità dello Spirito Santo non si arresta alle formule, ma tracima nella realtà.

Avviato da Atanasio, il dibattito sulla divinità della Terza Persona Trinitaria si definisce dogmaticamente nel Concilio di Costantinopoli del 381 d.C. per ipostatizzarsi in formule sussunte nel problema della processione, dopo lo scisma d’Oriente del 1054 d.C. Per questo la pneumatologia concreta ed economica di San Basilio può oggi, come al suo tempo, essere d’aiuto: egli descrive l’azione dello spirito non alla stregua di un avvicinamento nello spazio ma come allontanamento dell’anima dalle passioni. Lo Spirito è simile a un sole, che riconoscendo l’occhio purificato dell’anima, la conduce a contemplare l’invisibile, come un corpo trasparente quando un raggio di luce lo attinge: lo Spirito prevede le cose future e svela quelle nascoste.

Basilio, pur se sensibile a influssi filosofici soprattutto di impronta neoplatonica, svolge in realtà un tema paolino che si esplica – contro ogni emanazionismo – nel primato dell’azione pneumatologica su quella umana. Questo Spirito agente fa in modo che ogni uomo ritorni a se stesso imitando l’autore di una statua splendente. Proprio come uno scultore ciascuno di noi è chiamato a scalpellare, appianare, levigare riportando alla luce l’immagine di Dio che il peccato ricopre. Noi siamo massi di pietra, intrisi di fango, ma in quei blocchi ancora grezzi si cela l’orma del Figlio che il Padre nello Spirito vuol far brillare. Proprio come accadde a Michelangelo, capace di vedere le fattezze di un angelo in quello che per tutti era solo un grezzo blocco di pietra ancora prima di iniziare a modellarlo.

La Croce è lo scalpello con cui si spezza la volontà vecchia per far vivere l’uomo nuovo:

Basilio ci insegna che possiamo fare nostra questa dottrina anche nella tradizione latina come contemplazione orante. Ci basterà ascoltare l’inno “Veni Creator” in cui lo Spirito è: luce per la mente, amore per il cuore, forza creatrice che mette sulle labbra la parola, guarendo il corpo e facendo passare il mondo dalla bruttezza del peccato allo splendore della Grazia.

La pneumatologia si innesta nella relazione trinitaria, liricamente cantata dal terzo gigante San Gregorio Nazianzeno. Nei suoi quadri il Dogma brilla a partire dalla Sacra Scrittura, per poi tracimare nella tradizione vivente ed orante della Chiesa. L’Antico Testamento parla apertamente del Padre e in modo velato del Figlio, il Nuovo si intrattiene palesemente sul Cristo, mentre allude allo Spirito che si manifesta ora nella Chiesa per poter annunciare pienamente la Trinità. Le Tre Persone operano insieme, mentre si offrono distintamente solo dal punto di vista economico.

Secondo Gregorio Nazianzeno non esistono età diverse della vita della Chiesa cui corrisponderebbero alcune tra le Persone trinitarie, in una sorta di successione cronologica: le Persone, coeterne e coeguali, si manifestano diversamente a noi, operando sinergicamente nella Trinità.

La Trinità è luce luce luce, ma in una sola luce.

Proprio dalla Pericoresi, unica sostanza divina, rampolla il concetto di persona come relazione: Gregorio Nazianzeno abita in lei come nel suo ambiente vitale, con un cuore ancora più grande della mente. È il cuore che lo fa parlare della “cara Trinità” proprio come un innamorato. È la luce trinitaria che dalla sua sublime sede spande il suo irradiamento in una fede vissuta senza la quale non si può neppure esistere.

Se il Nazianzeno dovette difendersi dal triteismo, in Occidente il rischio è sempre stato quello antitetico di accentuare l’unità della natura divina a scapito della differenza tra le Persone. Il razionalismo cartesiano prima e il deismo illuminista poi, sorgeranno anche radicalizzando questa posizione monista. Ma se Dio è amore siamo già oltre il deismo ed Agostino, riprendendo la celebre espressione giovannea, distingue il Padre che ama, il Figlio che è amato e lo Spirito che è l’amore stesso.

Prima di credere nel Dio Trino, misteriosamente inaccessibile alla ragione e per questo rivelatoci in Cristo, occorre affermare con il quarto gigante Gregorio di Nissa l’esistenza di Dio. Agostino ha operato una distinzione tra una fede oggettiva consistente nelle verità credute e una fede soggettiva derivante dallo stesso atto del credere. La teologia ha oscillato sempre tra una fede intellettuale fatta di proposizioni cui assentire con la ragione e una fede del cuore, un credere in che riconosce la possibilità inscritta nell’uomo di trovare Dio muovendo anche dalla sua esperienza.

Questi due poli riemergono dialetticamente a ogni crinale della storia della Chiesa:

se Kant accentua quegli aspetti del Cristianesimo che possono essere inscritti nella semplice attività razionale, ecco che la contemporanea teologia liberale, sempre di area tedesca, esalta il sentimento di dipendenza umana da Dio quale sola scaturigine del credere. Nei Padri, ed in particolare in Gregorio di Nissa, questi due aspetti non sono ancora contrapposti ma convivono armoniosamente: “credo in un solo Dio” il Nisseno, come tutti Padri, non combatte l’ateismo ma il politeismo, rigettando la medesima accusa di pluralità nel divino che essi stessi avevano formulato contro il mondo pagano.

Proprio la Trinità superficialmente intesa si prestava a questa accusa: per questo i Padri insistettero sul unicità di Dio e partendo dalla sua unità (personale per i Latini, personalizzata per i Greci) dimostrano che, essendo uno, egli non è solitario. Per conoscere l’unicità di Dio il nisseno propone una forma paradossale di “gnosi” che passa per la non conoscenza: accetta di traversare la nube e l’oscurità della notte per comprendere come proprio questa inconoscibilità di Dio rappresenta la forma più perfetta della sua conoscenza.

Il tema è già abbozzato in Filone di Alessandria: Dio si manifesta prima nella luce poi nella nube e infine, in
modo più alto nelle tenebre. Occorre vedere l’invisibilità di Dio, non per afferrare il suo concetto ma per intuire un “certo sentimento di presenza”. Le idee del Nisseno, fratello di Basilio e contemporaneo di Gregorio Nazianzeno, hanno esercitato, a partire da Dionigi l’Aereopagita, un influsso incalcolabile nella cristianità posteriore, fino alla “dotta ignoranza” di Cusano. Il pensiero mistico e profondo di questo gigante, sempre più riconosciuto come originale dalla critica, può aiutare anche noi a oltrepassare i confini stessi della
ragione: oggi si nega l’esistenza di Dio, incompatibile con la mentalità scientifica.

Credendo, involto nella nube, mentre accetta la sfida di una ragione in cui albergano le ragioni del cuore, il
fedele non annulla l’intelligenza ma, conoscendo Dio come lo sconosciuto, la sublima: ignoriamo Dio a ragion veduta ma in questo ignorarlo sta il nostro conoscerlo. Lo stesso mondo della fede, oscuro per chi lo guarda dall’esterno, diviene luminoso per chi lo vive: Dio è più grande, più bello e soprattutto più buono di quanto noi riusciamo a pensare, senza mai essere sfiorati dal dubbio che potremmo annoiarci nel trascorrere con e in Lui l’eternità.

Lasciamo l’Oriente greco per salire sulle spalle dei quattro giganti della latinità, che prediligono le tematiche paoline: rapporto Legge-Vangelo, Chiesa-Corpo di Cristo, ecc. Sant’Agostino, soprattutto negli scritti anti-donatisti, ma anche nella stessa omiletica, ci introduce alla vera natura della Chiesa, rigettando l’idea secondo cui la validità dei Sacramenti derivi dalla dignità del Ministro che li impartisce. Nel Donatismo si affaccia la tentazione di una Chiesa resa pura dalla santità dei suoi membri e che quindi non è più bisognosa essa stessa di essere redenta e salvata: i seguaci del Vescovo Donato non volevano riaccogliere nel seno della
comunità cristiana quanti avevano abiurato dopo le persecuzioni dell’Imperatore Diocleziano (302
d.C.); Agostino ritiene che il ministro sia solo uno strumento del Sacramento, la cui grazia e quindi la sua efficacia dipendono da Dio stesso.

Questo principio basilare, lo costringe però a rimodellare l’intera sua ecclesiologia fondandola sullo Spirito. Come il pane nasce dall’impasto di chicchi di grano, e il vino dall’unione di acini d’uva, così la Chiesa trova il motivo della sua unità più intima e profonda nello Spirito e non certo in vincoli giuridici, pure necessari, di ordine esterno. I fedeli, riuniti dalla parola, macinati dalle penitenze, passati al fuoco dello spirito entrano nella Chiesa, indipendentemente dal ministro che impartisce il Battesimo.

Proprio l’Eucarestia, cui il grano allude, rappresenta l’ambito privilegiato dell’azione del secondo gigante latino, Sant’Ambrogio, che del primo araldo fu maestro e catecheta. I Padri greci avevano trattato in modo eccellente dei singoli Misteri, ma non degli aspetti comuni a ogni Sacramento: ministro, materia, forma, modo di produrre la grazia. Già solo da questa terminologia di matrice aristotelica si può capire come neppure Ambrogio giunse a questa sistematizzazione (che avverrà nel secolo XII) ma offrì nei suoi due discorsi “sui misteri” e “sui sacramenti” una consapevolezza sorprendentemente chiara del Dogma della presenza reale di Cristo nelle Specie Eucaristiche.

Nel suo testo dedicato ai misteri si legge “la parola di Cristo che poté creare dal nulla ciò che non esisteva, può trasformare in qualcosa di diverso ciò che esiste”. Grazie alla presenza reale, l’espressione “corpo mistico di Cristo”, inizialmente nata per designare l’Eucaristia, passò gradualmente a indicare l’intera Chiesa in un rapporto sempre più vitale con questo Sacramento.

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Mediata da segni che sono il pane e il vino, quella eucaristica è una presenza sacramentale, non fisica,

che si connette direttamente (in questo risiede il valore odierno della dottrina ambrosiana) al pasto rituale ebraico.
In una feconda circolarità con l’Oriente cristiano che valorizza l’invocazione allo Spirito Santo, la dottrina eucaristica può divenire utile anche nel dialogo interreligioso. Si tratta qui di recuperare la Comunione come compimento di quanto gli Ebrei dicevano e facevano nel loro pasto rituale: i Padri della Chiesa conservarono le Scritture ma non la Liturgia dell’antico Israele, utilizzarono le figure presenti nella Bibbia, prima fra tutte l’Agnello, ma non il contesto del Rito sinagogale.

La Cerimonia officiata da Gesù nell’istituire l’Eucarestia accompagnava tutti i pasti degli Ebrei, ma assumeva un significato rilevante soprattutto in quelli del sabato e dei giorni festivi, oltre che nella Cena Pasquale: il Sacramento, nella prospettiva cristiana che compie quella veterotestamentaria, non celebra più la liberazione dalla schiavitù materiale d’Egitto, ma l’atto di mangiare Cristo stesso. Lo sguardo dal passato, implicito in una concezione solo memorialistica, si volge al futuro: il dono mirabile dell’Eucarestia è affidato a ciascuno di noi, perché mentre l’evento avviene una volta sola, il Sacramento si produce ogni volta che vogliamo. Per questo nell’Eucarestia noi stessi, le nostre sofferenze ma anche le nostre gioie, divengono sacrificio gradito a Lui, e il nostro pur piccolo dono è sublimato dall’azione dello Spirito e dalla parola del ministro.

Chi è il Cristo che ci si offre, ripresentando il Suo sacrificio nelle Specie Eucaristiche?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo salire sulle spalle del penultimo gigante, San Leone Magno che, facendo confluire nel Concilio di Calcedonia del 451 d.C. gli esiti, non sempre univoci ma mai antitetici, delle Cristologie d’Oriente e d’Occidente, ha segnato il corso della fede cristiana fino ai nostri giorni. La formula di Calcedonia riassume tanto la via tipologica che vede nel Cristo il compimento delle antiche promesse, quanto quella storica che lo innesta nella vicenda della Salvezza.

A queste due vie si aggiunge quella esperienziale, che partendo dal basso muove dal vissuto del singolo. I capisaldi del Dogma calcedonese sono sostanzialmente tre:

  1. Gesù Cristo è vero Dio;
  2. Gesù Cristo è vero Uomo;
  3. Gesù Cristo è una sola Persona.

Nella Persona di Cristo, che comincia ad essere ciò che non era senza cessare di essere ciò che era, confluiscono sia la natura umana sia quella divina. Prima di Cristo l’uomo aveva contratto con il peccato un debito infinito dal quale non poteva liberarsi, sia perché egli è finito, che perché la disobbedienza lo aveva reso schiavo di colui con il quale aveva contratto il debito. Lontano nell’alto dei cieli, Dio poteva sì espiare il peccato e vincere il Demonio, ma non doveva farlo, non essendo Lui il debitore.

In Cristo, vero Dio e vero Uomo, coincidono sia colui che doveva lottare sia il solo che potesse vincere.
Negli ultimi due secoli queste certezze su Cristo sono state investite da un ciclone critico, nella ricerca del cosiddetto Gesù storico, separato e talora opposto a quello della fede. L’indole spirituale e non apologetica dell’opera porta il suo autore a giudizi forse troppo netti su questa complessa questione, resta però indiscutibile il fatto che a questo gigante dobbiamo il merito di essere andato oltre la formula, centrandosi sulla Persona di Cristo. Occorre passare dal Cristo personaggio, di cui si parla e su cui si scrive, al Gesù Persona, risorto, vivente, con cui io posso parlare.

Così il Nazareno diverrà anche mio confidente e amico cessando di essere un mero ente perduto nel passato. In questa scoperta risiede l’attualità di San Leone Magno. Oltre al Gesù ricordato nella storia sono le Scritture a custodire la testimonianza del suo essere Dio con noi. Su questo libro di libri si centra l’eredità dell’ottavo gigante, San Gregorio Magno. Un rinnovato amore per le Scritture può sgorgare solo da una loro rinvigorita lettura spirituale che eviti, come pure ha fatto un’esegesi senza fede, di ridurre Gesù a personaggio storico e parallelamente la Bibbia a un testo come gli altri, cui approcciarsi con i soli criteri della critica
storico-letteraria.

La Chiesa prima che la sua dottrina oppone la sua esperienza, liturgica ed esegetica allo stesso tempo. Nella Scrittura sperimentiamo la presenza del Cristo che ci parla nello Spirito, e lo farà ancora più chiaramente se ritroveremo la verginità di ascolto che caratterizzava i Padri. Questi proseguono le azioni stesse di Gesù che ai discepoli di Emmaus spiega il senso delle Scritture. Dopo molti altri parziali adempimenti, è sulla Croce che tutto si compie: nel fluire della Scrittura tutto rimane ma nulla è come prima, perché Cristo, luce degli
uomini, è anche quella delle Scritture. Oltre che alla vita di Gesù la Bibbia si applica alla Chiesa, sia dal punto di vista apologetico per il dialogo con chi è fuori dalla comunità cristiana, sia nella sua lettura spirituale iniziata da Origene.

Oltre la controversia origenista va stigmatizzata una lettura troppo verticale che questo Padre operò della Pagina Sacra. Una simile ermeneutica platonizzante fu nella tradizione Latina, mitigata da san Gregorio Magno. Questo gigante vede nella Scrittura una pietra quadrangolare: possiamo infatti leggerla secondo il senso letterale o storico derivante dagli avvenimenti per come sono accaduti; allegorico-tipologico cioè riferito alla fede in Cristo; morale inerente la vita del cristiano; escatologico riguardante il compimento finale.

Proprio perché quadrangolari, queste pietre si tengono in piedi da ogni lato, essendo esse stesse fondate su Cristo, inteso come pietra angolare. Oltre e prima della celebre dottrina dei quattro sensi, ciò che recuperiamo dai Padri è l’amore vera essenza di Dio, capace di traboccare nella Scrittura come il miele dai favi. Questo amore di Dio si getta nel cuore di ogni uomo, che mentre legge la Scrittura è letto: la Bibbia contiene il cuore di Dio, Sua volontà vivente che parla nello Spirito a ciascuno.

Attualizzati nella lettura di Raniero Cantalamessa, questi otto giganti ci appaiono non solo meno lontani nel tempo ma paradossalmente ancora più capaci di fungere, ciascuno a suo modo, da scala verso quella visione di Dio come Egli è che in Oriente e in Occidente chiamiamo Paradiso.

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