Recensione a “Vico dei miracoli” di Marcello Veneziani

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Recensione a “Vico dei miracoli” di Marcello Veneziani, Edizione Rizzoli 2023

Dalle pagine, lievi e dense di Marcello Veneziani balugina quel miracolo meridionale, mediterraneo e cattolico che fu Giambattista Vico: emerge dal sostrato di una napoletanitudine che, ai suoi tempi, produsse la pizza e il mandolino, il lotto e la tombola, Pulcinella e i vermicelli. Con un uso sapientemente giocoso del vernacolo napoletano di cui ritrae la vivida espressività in “Vico dei miracoli” l’autore non si limita a colmare un vuoto derivante dall’assenza di una biografia non specialistica ed erudita del filosofo partenopeo, ma ci mostra il mondo che ne plasmò la vita e il pensiero.

Svetta Vico, tra i vichi della sua città in cui fu straniero anche dopo morto e dalla quale fu ignorato quando non deriso, come uomo scartellato e dimesso professore, ma che diverrà fino alle ultime propaggini del XX secolo, capace di precorrere tempi e pensieri, fondando la riflessione sulla storia, nutrendo la filosofia con la filologia, riscoprendo, oltre il mito del progresso lineare, le ancestrali sinuosità di un’umanità fabulosa, perché capace di narrare le gesta degli eroi, di seppellire morti, di  creare religioni: insomma di fondare una civiltà.

In una simile prospettiva, come sottolinea Veneziani, Vico dei miracoli non è solo un luogo di Napoli a due passi da San Gregorio Armeno: ma l’allusione al mirabolante ingegno dell’ autore della Scienza nuova, sorto quasi per caso dal contrastato e pur simbiotico rapporto con quella che, ai suoi tempi, era una delle più vivaci e importanti capitali europee. Veneziani non si limita a rammemorare simili circostanze, ma intende amplificarle proprio in questo nostro tempo, svagato e distratto. Così, con il piglio del cantastorie e la precisione, anche documentale, dello storico, ci racconta vita, morte e miracoli di quello che ritiene essere il più grande pensatore italiano.

Prolessi degli uomini del Risorgimento, in una riflessione anticipatrice di quell’antichissima sapienza italica che ritiene ogni uomo ineluttabilmente avvinto a un destino, a una terra, ai padri; ma anche visionario, costruttore di quel domani che si era annunciato già nel Illuminismo secolarizzante, cui Vico sarebbe stato per mentalità ostile ma non estraneo perché è a lui che si deve, più che al celebratissimo Pietro Giannone, la nascita di quella scienza nuova, la storia, cantata come coincidenza tra vero e fatto.

“Vico dei Miracoli” è un libro inconsueto in cui ogni tassello, biografico o teoretico, accademico o anche solo aneddotico, si ricompone nella storia, oscura e travagliata, di una mente luminosa che visse in un tempo ingrato: un genio, capace di illuminare chi sarebbe venuto dopo di lui.

Da Manzoni a Foscolo, da Gramsci a Croce la luce vichiana si disperde in mille insospettati rivoli, travalica le Alpi lambendo Montesquieu il cui Spirito delle leggi gli è per molti rispetti debitore.

Un cristiano secco poggiato su un bastone fende Spaccanapoli: pare nu seccante lagnoso per i più; veste modestamente, ma in modo decoroso. è strutto, per i popolani, dalle cui fila proviene e a cui si sente intimamente di appartenere. Il padre libraio proveniente da Maddaloni, oggi in provincia di Caserta, generò otto figli presto ridottisi a cinque, tra cui quello che sarebbe divenuto o professore, detto tisicuzzo perché contrasse la tisi da piccolo, oltre ad aver subito una brutta caduta nella libreria paterna che, a dire dei medici, avrebbe dovuto trasformarlo in un menomato mentale.

E invece studiò giurisprudenza e filosofia e poi insegnò retorica: fu lui a restituire, come sottolinea Veneziani, l’infanzia al mondo, la giovinezza alle nazioni e la pietà al pensiero.

In una vita grama brilla il periodo in cui fece il precettore nella località cilentana di Vatolla, come uno dei rari momenti di serenità in cui Giambattista si immerse nella natura, godette di aria salubre e cibo abbondante e non dovette più dividere il letto con un fratello, avendo una stanza tutta per lui.

Ma le delizie della vita non finirono qui: sempre a Vatolla, pregustò l’amore per una ragazza, mai dichiarato anche per la differenza di condizione sociale e conseguentemente non corrisposto. Prima e dopo non sarà così: fino al suo estremo saluto ripetuto due volte poiché quegli accademici che lo avevano deriso e ignorato in vita, contesero il privilegio di onorare il feretro con i membri di una confraternita religiosa cui apparteneva.

Ma torniamo all’infanzia fantastica che, come nota Veneziani, avrà tanta rilevanza nella sua riflessione: indugiamo sui primi passi del parlare e del poetare, del credere e del pensare, del fantasticare e del commuoversi. Lo facciamo perché lo Scartesio che scombinerà i quadri dell’imperante razionalismo, pur senza disconoscere il vero valore della ragione, si comprende a partire dalla potente fantasia di una mente eroica perché capace di comporre il suo mondo non nella vastità di una tra le più importanti città d’Europa, ma negli angusti vichi di un quartiere.

Un bimbo desideroso di studiare sui libri che il padre avrebbe dovuto vendere, non frequentando, anche per la sua cagionevole salute, scuole regolari.

Vico non era certo uomo di mondo, ma appena entrava nel suo mondo ti apriva il cielo e la mente: un grande pensatore che però, come avrebbe detto il Piccolo principe, non dimentica di essere stato bambino. E da quell’ infantile baloccarsi, da quel far parlare gli oggetti, da quel discorrere di e con aratri e timoni, presenti nella seconda edizione illustrata della Scienza nuova, rampollano: il pensiero, la religione, la provvidenza e, grazie a loro, la civiltà.

Proprio mentre Pietro d’Aragona diveniva Re di Napoli, poco prima della notte delle streghe, sopravvivenza pagana nella cristianissima Partenope, Vico era nato in una modesta stamberga. La guerra tra Francia e Spagna era appena finita e con l’estate sbocciava anche la pace, oltre alla speranza, vana, che le tasse fossero diminuite: eravamo nel giugno del 1668.

Da bambino Vico ebbe più volte paura ascoltando le storie raccontate dal padre sul suo paese natale in cui, nella notte dei morti, si osavano pettinare i defunti scoprendo le bare. E allora fantastichiamo anche noi: chi sa se inconsapevolmente, pur se a suo modo, quello spavento non fu il veicolo della potenza primeva del mito o della favola o, ancora, della stessa esperienza sepolcrale che ricorsivamente sarebbe tornata nel suo pensiero.

Quando Vico aveva due anni ecco comparire, non lontano da casa sua, il gigante di palazzo, e ancor più vicina una statua detta dal popolino la testa di Napoli, di cui il dedalo di vicoli rappresentava metaforicamente il corpo.

Prima dell’ incidente Giambattista fu un bimbo instancabile: in perpetua attività tra i vicoli e la bottega. Ma un giorno cadde da una scala: giacque per sei ore privo di sensi, e parve sul punto di raggiungere un suo omonimo fratello deceduto pochi anni prima. Il medico stesso affidò il piccolo alla Provvidenza, che anche lei ricorsivamente sarebbe tornata nel pensiero del professore a guidare, loro malgrado, gli uomini. Idea questa che, al pari di altre, avrebbe impressionato il Manzoni, fino a innervare il suo romanzo storico, alcune delle cui scene risulterebbero incomprensibili senza quell’occulto agire di Dio, misteriosamente irrelato con l’umana libertà.

Ma l’autodidatta che studiava seduto in mezzo agli scaffali della libreria paterna al fioco lume di una fiammella, ne fece di strada: prima di leggere i libri Vico ne annusò l’odore, in una percezione tattile quasi magica dei volumi in cui, nella fervida fantasia di un bimbo, si dischiudevano foreste di simboli e di parole. Deluso da una scuola dei gesuiti, si volse agli studi giuridici: il padre lo voleva avvocato, ma ben presto anche questa disciplina fu abbandonata.

Giambattista riprese ad occuparsi di filosofia, anzi di retorica, la propaggine del sapere teoretico meno lontana dal diritto: compì letture disordinate ed irregolari, talento curioso che scorrazzava tra saperi storici e umanistici, filosofici e letterari. Un itinerario che lo condurrà all’insegnamento di retorica: si trattava, però, di una cattedra non adeguatamente retribuita, tanto da costringerlo, per tutta la vita, ad arrotondare con lezioni private e, soprattutto, con la scrittura di encomi di varia natura, oltre che di liriche d’occasione.

Le incombenze familiari, poi, oltre alle vicissitudini di un figlio scapestrato, resero la sua vita tormentata, e gli spazi riservati al pensiero sempre più angusti. Eppure, proprio da questa temperie il professore emergerà, gigante in umanità prima e forse più che nella stessa riflessione filosofica.

Resta inevasa una domanda cosa ci lascia Vico? Qui le pagine di Veneziani si fanno, per sua stessa ammissione, pensose: il bimbo allegro che scorrazzava tra i libri e per i vichi di Spaccanapoli, quello mesto, ma ancor capace di fantasticare dopo l’incidente; il giovane precettore a Vatolla, l’attempato professore sempre alle prese con beghe domestiche e penuria di denaro cosa dice a questa nostra epoca?

Ecco in breve il suo messaggio: l’uomo non è un fugace passante nel suo tempo: ciascuno di noi abita il passato, il presente, il futuro, dimora nel fantastico. Ma siamo anche eredi di mondi e civiltà, abitanti della storia e dell’avvenire, scrutatori delle favole, più e prima che degli stessi fatti. Ma la nostra mente va oltre: congiunge la sua vita, labile e mortale, con l’eterno.

Vico, che mai aveva viaggiato oltre Vatolla, ci conduce così in altri tempi, in altri mondi: è lui – nella vivida lettura di Veneziani – a prenderci per mano, guidandoci in quell’infanzia poetante e perenne che ogni giorno ringiovanisce il mondo.

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