Recensione a: Giuseppe Forlai, “Come una piccola creatura. Solitudine, silenzio, ascolto e vita cristiana”

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Una cella in cui sedersi, i Salmi per placare la sete, proprio mentre la parola fa posto al silenzio e il turbinio delle azioni cede il passo a un’estatica presenza che, se ci lasciamo inabitare da lei, è la sola capace di inondarci.

Forse così smetteremo di sentirci soli, pieni di noi stessi, dei poveri talenti che dimentichiamo di aver ricevuto: ma per scoprirlo dobbiamo raccogliere l’invito, contenuto nella postfazione di Don Fabio Rosini a custodire questo piccolo testo, gustandolo come un buon cibo, sospesi tra la voglia di mangiarlo e l’insensata paura che finisca perché, come ogni libro, anche questo si dilata in un’infinita lettura.

Oltre le parole ridotte a slogan da gridare, quando non da blandire, oltre le appartenenze a gruppi e comunità, quella di fermarsi, per un faccia a faccia con Dio, con le sole Sacre Scritture sotto il braccio e il silenzio come precondizione necessaria a farsi spogliare di tutto ciò che non sia Cristo non è un’esperienza riservata ai monaci.

Appare invece la sola via per recuperare la fede che rischia di smarrirsi in un dedalo di azioni, anche lodevoli, ma autoreferenziali.

Nel suo “Come una piccola creatura” Giuseppe Forlai ci propone questo sorgivo itinerario, in un tempo in cui la peste attivista travolge la stessa Chiesa e l’esperienza aurorale del silenzio è relegata, al più, a sporadici momenti di deserto, mera pausa nel vorticoso turbinio di attività in cui rischiamo di smarrirci.

Uno smarrimento non solo esistenziale ma anche storico se, come documenta l’autore, la corrente cenobitica del Monachesimo ha preso il sopravvento su quella eremitica, fraintendendo la solitudine come se fosse un mero intimismo. Anche per questo l’itinerario proposto muove dalla riscoperta di figure come quella di San Romualdo, anacoreta ravennate appartenente alla famiglia Benedettina, cui si deve una piccola regola che Don Giuseppe rilegge calandola nell’attuale contesto antropologico e spirituale.

Sono parole soavemente dolci quelle con cui il Santo ci ammaestra: “siedi nella tua cella come nel Paradiso. Scordati del mondo e gettalo dietro le Spalle”. E ancora: ”Svuotati dite stesso e siedi come una piccola creatura, contenta della grazia di Dio; […]”.

Capace di avvolgere il mondo in un misericordioso abbraccio, l’autore è oggi un eremita della Diocesi di Roma che, se non giudica i suoi fratelli in umanità perché li ama in Cristo, tuttavia non ne tace le non poche ipocrisie come quella di uomini che, mentre hanno abolito il senso del pudore, si compiacciono degli scandali e moltiplicano i social, veicoli di una chiacchiera senza intimità. Insomma, se non sappiamo più stare con gli altri, questo accade perché non riusciamo – come già ammoniva Pascal – a rimanere quieti nella nostra stanza, in una solitudine intesa come mezzo necessario all’inabitazione spirituale.

“Noi siamo quel che rimane quando è sparito tutto”. Eppure entrare nel deserto ci fa paura, ci spinge a sfrondare, a capire ciò che veramente conta: così potrebbe essere sorprendente constatare come senza intimità si sia sì prossimi, ma non ci si senta veramente tali, ciascuno troppo pieno di se stesso. In fondo anche Pietro e Giovanni si divideranno: l’uno custode della Vergine ad Efeso, l’altro martire a Roma.

Prendere la propria strada significa forgiare la fede nel crogiolo della solitudine, non necessariamente per l’intera esistenza ma anche per un tempo limitato, senza però autoreferenziali spontaneismi. Occorre invece seguire alcune regole, talora semplici e solo apparentemente banali, che don Giuseppe distilla con quella sapienza fondata sul carattere ascetico della stessa esistenza. È infatti nella solitudine che Dio ci attende in una risposta, unica e personale, al Cristo che ci chiede: “Mi ami tu più di costoro?” Domanda impellente che però le strutture comunitarie hanno attenuato.

Il libro si impernia su alcune tesi enunciate in esergo, per poi procedere sinuosamente in un loro approfondimento con toni a tratti mordaci, ma sempre connotati da misericordiosa fermezza: si tratta di considerazioni inattuali, ma proprio per questo stimolanti. Oltre le manchevolezze e le storture, che pure il testo rivela talora causticamente, la sua vera forza risiede in un profondo amore alla Chiesa che traspare da ogni nota di questa poliforme sinfonia.

Dono dello Spirito Santo la comunione non si costruisce dal basso e, se le nostre comunità sono divise, ciò accade anche perché oggi, almeno in Italia, sono scomparse le due vocazioni che nel variopinto panorama della creatività evangelica hanno da sempre contraddistinto la Chiesa: quella monastica e quella missionaria.

Don Giuseppe gioca a carte scoperte e, in questo simile all’eremita che ha eletto a sua guida, rifugge la dimensione mondana della Chiesa, esprimendo chiaramente il suo punto di vista anche contro un certo imperversare dell’«ecclesialmente corretto». Ma ecco le sue tesi: la Comunione ricevuta nel Battesimo si sviluppa sia nella vita comunitaria sia in quella solitaria che rappresentano, in un orizzonte polare, due momenti di quell’esistenza eucaristica in cui, senza alcun nostro merito, il Solo ci attira a sé. È quindi l’anacoresi scelta come mezzo e non come fine a tenere insieme la Chiesa, senza mai andare contro la sua dimensione visibile che comunque non deve esaurirne l’esistenza.

Così se la comunità rammenta al solitario che nessuno si salva da solo, è l’asceta a ricordare agli altri donde promana ultimamente quella comunione che entrambi cercano. È per questo che nell’opera la solitudine non è mai contro qualcosa – ad esempio le attività pastorali – ma si configura sempre come il mezzo per raggiungere un fine più grande che le impedisce di divenire patologica misantropia, solipsismo elitario e giudicante. Nell’XI Secolo un credente ripropose l’anacoresi, proprio mentre il cenobitismo pareva il solo stile monastico possibile: fu, come detto, Romualdo chiamato da San Pier Damiani “padre degli eremiti ragionevoli”, che oggi possiamo imitare non nelle forme esteriori ma nella sostanza.

Come ogni cristiano, indipendentemente dal suo stato di vita, l’eremita ravennate fu pneumatoforo, portatore di quello Spirito che spinge al combattimento; Romualdo fu poi uomo libero, allergico ad ogni appartenenza ecclesiale per amore della Chiesa, ma soprattutto il Santo ebbe compassione per il prossimo in un secolo non facile in cui lo stesso popolo di Dio appariva lacerato. Nella sua regola l’eremita ravennate distilla una sapienza profonda che inizia con un atto solo apparentemente semplice: quello di sederci nella nostra cella come se fosse il Paradiso.

Se non fosse Paradiso, il sedere in cella per gustare quello spicchio di eternità che la solitudine fa assaporare non rimanderebbe altro che a un penitenziario. Luogo voluto da Dio per la singola persona, il claustro è come un lago in cui il pesce nuota: l’atto di sedersi è l’inizio di quella quiete del cuore in cui il cristiano ascolta lo Spirito. Al contrario per l’uomo fermarsi è morire: significa non esercitare più il controllo, non illudersi di salvare il mondo, magari sedendo sì, ma in affollate riunioni.

Sedersi è dimorare presso il nostro uomo interiore, smettere di affannarci per molte cose, perdendo la parte migliore, è tralasciare l’eccessiva paura del futuro. Sedersi è viversi come discepoli, creature piccole e povere, pargoli indigenti incapaci di badare a se stessi: sì perché tutto è dono, tutto è grazia.

Sedersi in disparte quindi è ancora non farsi scegliere da molte cose, anche buone, ma accogliere lo Spirito oltre la concupiscenza del vedere e del parlare. Icona biblica di questo atteggiamento è il cieco Bartimeo: mendicante, si professa bisognoso di una salvezza che non può darsi. Ma sedersi non basta, occorre ritirarsi nella propria cella: il vuoto interiore va affrontato anche fisicamente individuando uno spazio in cui rimanere soli, senza musica, senza notifiche, con una pericope biblica o un passo patristico da meditare.

Rimanere in un luogo privo di specchi in cui, chiusa la porta, possiamo riconoscerci figli in e di Dio. Seduti nella nostra cella dobbiamo poi scordarci del mondo: lasciare oltre quella porta affanni, agitazioni, presunzione di bastare a noi stessi, di incastrare in una logica orizzontale i mille tasselli della nostra vita. Aveva ragione Sant’Agostino quando insegnava che niente affanna l’uomo più che non affannarsi: sì, perché la nostra esistenza non dipende da ciò che diciamo, facciamo e neppure da ciò che lasciamo ai posteri. Sedere è quindi un atto che ci semplifica esortandoci a restare stabilmente nel presente, ribaltando le priorità e rinunciando alle paure e alle carriere: la vita intera può non bastare.

Non meno suggestiva è l’immagine della chiusura della porta, che allegoricamente significa considerarsi stranieri in ogni luogo, per pregare quel Padre che ama l’intimità: Dio si nasconde nella creazione, si vela nell’Eucarestia e nei doni dello Spirito, per questo per incontrarlo bisogna celarsi. Dio vive nel nascondimento perché il Padre ama tutti, senza essere visto da nessuno: abita in quel velo non squarciato del tempio: ”io sono ciò che faccio quando nessuno mi vede”. La cella con il progredire della vita spirituale può rivelarsi un Paradiso: un esito non scontato perché la solitudine può divenire noia.

Una discesa agli inferi che però il solitario deve affrontare per non ritenersi indispensabile, come credeva di essere quando era con gli altri. Nella comunità ci si sente amati, gratificati, ma si corre il sottile rischio che questi sentimenti prendano il posto di Dio. Da tale rischio ci preserva la triplice stabilità, cara al Monachesimo d’Occidente: nel luogo, nel tempo – vera ricchezza dell’uomo -, ma soprattutto nello scopo, perché la solitudine e il silenzio non sono il vuoto ma mezzo in vista della pienezza. È in questa prospettiva che occorre prefiggersi di meditare un versetto biblico o anche semplicemente donarsi il tempo per recitare
distesamente il Padre Nostro.

Insomma “ogni giorno, in uno stesso luogo, alla stessa ora, dedicati alla preghiera. Scordati del mondo e gettalo dietro le spalle”. Ma cosa è il mondo? La sua prima immagine biblica è la Torre di Babele: da lì non si sfida tanto Dio, ma si può meglio controllare il popolo: certo visivamente dall’alto, ma anche dal punto di vista culturale imponendogli un unico idioma.

È per questo che occorre farsi dimenticare, non voler apparire, studiare per conoscere e non per vantarsi: la vita solitaria non è tanto la rinuncia ad un’esistenza mondana, quanto un volontario sottrarsi alla visibilità per crescere di e in Dio. In una parola occorrerinnegare la filautìa, quello smodato amore di sé che è la torre di Babele nascosta in ciascuno di noi: un mondo che ci ammalia con l’inganno di un’eterna giovinezza da perseguire, bandendo da sé la malattia, la morte, il dolore, ma anche la gioia vera e durevole. Un mondo che, con le sue categorie, contamina anche monaci, preti, seminaristi, suore, sotto forma di: buonismo senza trascendenza, solidarietà senza fede, comprensione priva di verità.

Da questo punto di vista restano attuali le parole di Don Divo Barsotti: “si illude chi pretenda di salvare il mondo facendone parte”. Così se il secolo ci spinge a sentirci indispensabili portandoci a legare a noi cose e persone, dobbiamo accettare di non esserlo: soprattutto è necessario fuggire dalla vanagloria che si insinua in noi in modalità tanto raffinate da risultare difficilmente riconoscibile.

La sua capacità mimetica è straordinaria: oggi si traveste da presenzialismo social, con una foto, magari ritoccata, pur di esserci. In una simile ottica ciascuno si crede speciale, depositario di straordinari talenti e ciò appartiene, in certa misura, alla sua stessa natura creaturale: siamo sì speciali, ma per Dio. Lontani dal suo volto però ci contentiamo di esserlo per i nostri simili, godiamo se veniamo citati o adulati o, che è lo stesso, ci lamentiamo se non lo siamo.

Il vanaglorioso non può stare solo, soffrirebbe troppo perché nessuno lo incensa: non siamo il prodotto dei nostri successi, né quello dei nostri fallimenti, lo Spirito irriga la vita e, se ci scopriamo figli nel Figlio, allora anche in solitudine non saremo soli. All’eremita è chiesto di vigilare non solo sulle azioni ma anche, se non soprattutto, sui pensieri da cui esse germinano. L’ira, la vanagloria e la tristezza, pensieri malvagi secondo Evagrio Pontico, si incuneano in me atterrandomi se ne accetto l’assalto.

Con pazienza e misericordia, soprattutto verso se stessi, quell’assalto va respinto ma per farlo si deve saper ascoltare la Parola in una lettura orante e lenta; nutrendosi di ciò che edifica. E se il Maligno divide, il solitario unisce: abbraccia il mondo con sapienza, non con le sue forze ma continuamente rinfrancato dallo Spirito.

Ascolto della Parola, ma anche ascolto dei libri che diviene lettura: mirante non tanto a fornire nuove conoscenze, ma a favorire la calma della mente. Il libro è un amico docile e discreto pronto a schiudere i suoi tesori ogni volta che lo vogliamo.

Tradizioni anacoretiche sono presenti in pressoché tutte le religioni, oltre che in non poche scuole filosofiche: potremmo chiederci quindi quale sia la precipua caratteristica del solitario cristiano. Don Giuseppe, inserendosi fecondamente nel solco della tradizione della Chiesa, individua una triplice via con cui intendo concludere questa recensione protrettica, mirante cioè a stimolare una lettura meditata del testo.

Percorriamo dapprima la via della creazione, dove la Parola si nasconde: qui ci è necessario lo stupore che sa vedere nelle opere naturali l’orma del divino artigiano: l’acqua che scende dall’alto ci rammenta che per essere fecondi occorre abbassarsi, gli uccelli che nidificano sui rami ci invitano a confidare solo in Dio.

Nascosto nella natura, l’Altissimo si rivela nella Scrittura che è la seconda via da battere: occorre leggere il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico, ricevendo la Parola con devozione essendo l’amore fatto Pagina. Vi è poi il sentiero della liturgia in cui la Parola opera e trasforma: qui siamo immersi nella Parola, la nostra carne entra nel Verbo risorto e glorioso, la Parola proclamata è mangiata nel Pane Consacrato.

Sono tre i verbi dell’anacoreta cristiano: vedere, leggere, celebrare. Ma ciascuno di questi verbi è usato in un senso peculiare perché il vedere travalica le cose, scorgendone il significato riposto; il leggere non serve ad accumulare conoscenze ma ad immergerci nella Parola rinascendo da e in lei; il celebrare ci conduce nel paese edenico della Parola divenuta Pane. Dallo scrigno della tradizione della Chiesa Don Giuseppe trae un tesoro fatto di “cose nuove e di cose antiche”: a tutti e a ciascuno è affidato il compito di farne tesoro, anche per pregustare stille di quella pace che un giorno ci auguriamo di vivere.

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