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Recensione a “Il dolore innocente” di Vito Mancuso

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Recensione a: Vito Mancuso, Il dolore innocente , Garzanti 2023.

Quella di Federico, morto nel grembo della madre al quinto mese di gravidanza, sarebbe stata una vita diversa, se il piccolo fosse venuto al mondo, strutturalmente segnata da quella anomalia genetica che gli impedì di nascere.

Assieme a quello di molti altri anche il suo dolore innocente brilla nelle pagine del padre, il teologo Vito Mancuso, recentemente ripubblicate, da Garzanti con un’interessante prefazione del genetista e fisico Edoardo Boncinelli.

Un testo intenso e profondo, in cui il pensatore parla di Dio dall’irto crinale dell’handicap scegliendo di divenire eretico in un rifiuto delle tradizionali teodicee fatte proprie anche dal magistero di S. Giovanni Paolo II. Si tratta, ad avviso del teologo, di pensare in un’ottica nuova da un lato lo scandalo di una creazione strutturalmente ferita, e dall’altro quello supremo della Croce, nella quale, sola, quella creazione acquista un senso.

L’unico orizzonte ermeneutico compatibile con l’epifania del dolore innocente è, alla luce di quel servo sofferente cantato dal profeta Isaia, quello dell’ incontro con il Cristo Agnello sgozzato fin dagli albori del mondo. Così la stessa ottica vetero testamentaria è riletta originalmente, travalicando il binomio colpa-castigo: un binomio che, invece, resta non scalfito nelle religioni orientali cui peraltro il teologo dedica pagine interessanti.

Assai significativa nella riflessione di Mancuso è la notazione per cui Buddismo, Induismo e Taoismo siano privi dell’orizzonte di un Dio personale, il solo al quale appaia possibile e “ sensato” porre questioni ineludibili. Quel suo chinarsi sull’uomo fino a farsi uomo Egli stesso, rende non aggirabile la domanda sul dolore innocente che, a differenza del male morale, non è provocato da colpe soggettive. Tale questione non viene neppure sfiorata né nell’orizzonte cosmocentrico dei greci, né nella cultura meramente retributiva assai diffusa nell’ Antico Testamento.

Non a caso – argomenta Mancuso tornando all’Occidente latino – i sofisticati tentativi di aggirare il problema dell’handicap da parte della teologia tenderanno, ad esempio tramite la tommasiana autonomia delle cause seconde, a compaginare un nesso Dio-natura-uomo che può sussistere solo se, e nella misura in cui, elude la questione del dolore incolpevole.

Perché nascono così? Si chiedeva, ormai quaranta anni or sono, il giovane Vito Mancuso appena conseguito il dottorato in teologia sistematica. Già in questa domanda era trapelata l’avversione per quelle conciliazioni che, facendo coincidere l’ambito del razionale con quello del reale, depotenziavano il Cristianesimo privandolo della sua sorgiva tensione a cambiare il mondo.

Il solito anti-hegeliano, si dirà, che in nome dell’irriducibilità del singolo rifiuta una sintesi artefatta, perché incapace di riconoscerne il dolore. Ma vi è di più: Mancuso non si poneva tale interrogativo in un solitario rovello ma coinvolgeva teologi ed uomini di Chiesa ottenendo in cambio silenzi, sorrisi imbarazzati, spiegazioni posticce che non parlavano né alla sua vita né alla sua teologia. Così gradualmente una crepa verticale, potenzialmente capace di far crollare l’intero edificio, minava antiche certezze dogmatiche, nonostante nel pensiero di Mancuso queste siano state spesso piegate alle esigenze della prassi pastorale.

Da questo ribollente magma sorgono le pagine del dolore innocente, espressamente dedicate “a tutti i segnati dall’handicap: a chi lo porta sulla carne, a chi lo vede sulla carne dei figli, a chi lo cura con amore”. Nel novero di costoro rientro io stesso, certo come persona cieca dalla nascita ma anche come battezzato, docente per lunghi anni di Religione Cattolica, oggi insegnante di filosofia che non di rado si è posto le lancinanti domande di cui è intessuto questo testo.

Lo ha fatto, però, in un diverso rapporto con la Tradizione che non va abbattuta, ma continuamente rinvigorita nella fatica del concetto, di un pensiero che sappia attingere linfa vitale proprio da quel rarefarsi dell’ossigeno che è l’aporia filosofica.

Le modalità con cui la cristianità occidentale ha depotenziato, ad avviso di Mancuso, il caso serio dell’handicap sono prevalentemente tre cui corrispondono altrettanti paradigmi che, pur se diversi tra loro, sono accusati di non rispettare l’irriducibile esperienza di chi soffre: quello, ormai desueto, del dolore colpevole per cui i patimenti si legavano ad un peccato della persona o dei suoi genitori; quello del dolore pedagogico, per cui chi è segnato dalla disabilità verrebbe al mondo quale monito vivente per gli altri; e quello del dolore espiativo, per cui chi è colpito da una sindrome, specie se genetica, sarebbe oggetto di una tanto singolare quanto misteriosa predilezione di Dio stesso.

A tali paradigmi, di cui con indubbia profondità speculativa sottolinea le aporie, Mancuso contrappone l’idea del dolore innocente, come se le tre ipotesi delineate si elidessero, mentre, proprio perché quello della sofferenza è un dramma antropologico, queste tendono piuttosto ad intersecarsi, tanto che, dopo il Venerdì Santo storico, tale polarità speculativa resta – e forse resterà fino alla fine dei tempi – avvolta nella non diradabile caligine del mistero.

Come possiamo ritenere valida la pur poetica espressione del Salmo secondo cui Dio ha intessuto la vita di ciascuno fin dal grembo materno per persone vulnerate nel fisico, nella psiche o, condizione ancor più aporetica, in entrambe queste dimensioni? Quantitativamente non si tratta di pochi individui – si calcola che una famiglia su dieci abbia al suo interno una persona con disabilità – ma il punto non è questo se lo stesso Boncinelli ammette che, per quanti passi in avanti la ricerca scientifica possa compiere nel lenire il dolore, la domanda continua a proporsi su un altro piano, quello della metafisica, della teologia, della riflessione filosofica.

Un piano diverso quindi da quegli accorgimenti, pur doverosi, necessari e tesi, soprattutto nelle società occidentali, a migliorare l’esistenza di chi vive la disabilità. Non insomma una domanda sul come, cui le scienze particolari, la politica, lo stesso progresso tecnologico possono rispondere; ma una questione radicale sul perché che fa del dolore innocente un testo di teologia, capace di provocare il pensiero, anche se non soprattutto, quando non lo si condivide interamente.

La stessa scelta di trattare le malattie genetiche in questo orizzonte non appare casuale: la menomazione, infatti, non sopravviene dopo la nascita per una qualche causa esogena, ma fa strutturalmente parte dell’esistenza stessa di un individuo diverso, che quandanche dovesse sopravvivere, non guarirà mai, dicendo a tutti e a ciascuno, con la sua presenza incoativamente muta, che la creazione, la vita, la natura sono anche male.

Oltre ogni romantica semplificazione, come non vedere che anche nei regni vegetale ed animale alla vita dell’uno corrisponde la morte dell’altro, per cui la natura si palesa intrinsecamente come tensione e lotta, e che della vita, poi, fa parte quella stessa morte che il Crocifisso, Dio e Uomo, attraversa. Assai acuta è la riflessione di Mancuso sulle raffinate forme di occultamento che non riguardano unicamente le rarefatte sfere del dibattito teologico, ma anche le nostre società occidentali, ampiamente secolarizzate.

Gli uomini e le culture del passato, al pari della scienza, hanno sempre riconosciuto nell’handicap un male, spingendosi talora a sostenere la non piena umanità di chi ne è vittima. Non meno paradossale è però la condizione dell’uomo moderno che, anche linguisticamente, mentre vuole riconoscere la pari dignità di queste persone, nega che la disabilità sia in se stessa un male.

Spia di tale rimozione è l’uso di termini come diverso, o di locuzioni come diversamente abile. Cosa ci dicono questi continui slittamenti semantici se non la paura che gli uomini istintivamente avvertono nei confronti di chi, con la sua stessa esistenza, ricorda loro che il male e il dolore non sono categorie astratte, ma indelebilmente segnano la carne di persone reali.

In un simile clima, secondo Mancuso, va affermato un duplice postulato: occorre dire nuovamente che la disabilità è un male, senza infingimenti linguistici, pur se mossi dalle migliori intenzioni; ma va anche sostenuto che la persona handicappata è in se stessa un bene. Se infatti si identifica il soggetto con la sua condizione se ne oscura la dignità ontologica ma, se per salvaguardare l’umanità di queste persone si giunge a negare l’esistenza oggettiva della minorazione alla stregua di un male, si vela la scaturigine ultima del mistero: dire che l’handicappato è semplicemente un diverso, significa sostenere che il suo sarebbe un altro modo di essere uomo, ma chiunque, in modo particolare chi vive simili condizioni, sa che così non è.

Per contro il paradigma antico che postulava la non umanità dell’handicappato appare, agli occhi di Mancuso, come una raffinata modalità di cui si servono teologi e pensatori del passato, anche apparentemente insospettabili come Francesco Bacone, per assolvere Dio come non responsabile della nascita di queste mostruose creature.

Solo ritenere simultaneamente che l’handicap è oggettivamente un male ma la persona colpita rappresenta sempre e comunque un bene ci conduce nel cuore dell’aporia teologica, filosofica, esistenziale che riguarda tutti e ciascuno perché la nascita anche di una sola bimba con la spina bifida – argomenta il teologo citando un celebre romanziere russo – pone in questione il senso stesso dell’intera creazione.

Il pensiero cristiano, se resta saldamente fedele al dettato neotestamentario, può certo fondare la dignità del disabile, appellandosi all’ amore crocifisso di Cristo; ma le convinzioni teologiche e religiose in genere riguardano la persona e ci impongono quindi di cercare ulteriormente un fondamento giuridico che sia generalmente valido.

In questo orizzonte occorre chiarire cosa si intenda per vita umana: domanda non solo teologica, ma anche filosofica e, soprattutto, giuridica che specie nell’ occidente secolarizzato, è oggetto di risposte divergenti. Secondo la maggior parte degli scienziati ciò che caratterizza intrinsecamente un’esistenza come umana è la vita della mente: concezione questa che può vantare un retroterra anche filosofico illustre: da Aristotele al pensiero stoico, fino a Cartesio.

Anche qui però si riaffaccia la medesima aporeticità: se un handicappato psichico non ha coscienza di sé, in base a cosa lo diciamo uomo? Qui la scienza tace e torna la filosofia intesa come vita consapevole nella dolorosa esperienza, solo per fare un esempio, del filosofo francese Mounier che, dopo la nascita di una figlia gravemente handicappata, scrive alla moglie “che senso avrebbe tutto questo se la nostra piccola bambina non fosse altro che un brandello di carne sfiguratosi non si sa dove, un po’ di vita dolorante?” è anche per questo che risulta assai cogente l’espressione di un pensatore contemporaneo secondo cui “noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono neppure sfiorati”.

E ciò accade, chiosa Mancuso, appunto perché quei dilemmi non riguardano la scienza sperimentale, ma un’altra scienza quella della psiche; solo che poi, con una sorta di corto circuito logico, egli si applica a demolire proprio quelle idee di cui pure postula la necessità, dichiarando oggi inservibile quella di anima immortale. Ed ancora una volta torniamo al nodo ermeneutico del rapporto con il deposito della fede che se, come afferma l’autore, non va sacralizzato, essendo scopo ultimo della teologia servire l’esistenza concreta delle persone, non può essere neppure aprioristicamente demolito, soprattutto se, come è opportuno, si intende tornare poi allo scandalo della Croce che è parte fondamentale di quel Kerygma.

La dignità della persona handicappata viene universalmente fondata sull’amore di cui egli è soggetto, un amore spesso profondamente, drammaticamente intessuto di un dolore lacerante assai più esplorato rispetto alle oscure, fragili, silenti gioie che pure quella tensione agapica sa far baluginare. Si tratta di un sentimento che è riconosciuto come un valore dall’uomo di ogni latitudine e cultura e quindi, a suo modo, dotato di un’universalità paradossale che unisce il vertice della soggettività e quello dell’oggettività. Oltre questa cura preveggente, anche nella stessa Chiesa – denuncia Mancuso- regna il silenzio: non che non vi siano stati, specie nel secolo passato, pronunciamenti magisteriali al riguardo, ma essi si fondano sul postulato ontologico della sacralità della vita umana, postulato che il teologo definisce apodittico.

Se è vero che, come tale, l’espressione “Vangelo della vita”, su cui il magistero del Papa polacco insiste tanto da farne il cuore del messaggio cristiano, non si trova nel Nuovo Testamento, è anche vero che sono rinvenibili concetti almeno contigui con tale espressione: si pensi al giovanneo “sono venuto perché abbiano la vita”. Chiamato in causa in ogni evento, il Dio cristiano può volere o almeno permettere – in ossequio alla libertà della natura – la nascita di persone con gravi disabilità: questo, corroborato oltre le mille diverse sfumature dai più insigni Padri latini è l’insegnamento tradizionale della Chiesa che connette tali eventi con l’insondabile mistero della libertà.

La relativa autonomia della natura, almeno per come essa si configura nel pensiero di Tommaso d’Aquino, non riesce però, ad avviso di Mancuso, a rendere ragione del dolore incolpevole, ponendo la nascita di chi ne è colpito sul medesimo piano di una catastrofe naturale, o dello stesso male morale i quali, però, hanno non solo una fenomenologia, ma anche una genesi totalmente diversa.

L’Autore nota acutamente come in un secolo pur teologicamente ricco come il Novecento, la questione handicap è posta, al più, a livello pastorale: un ulteriore, raffinato tentativo, per Mancuso – con cui qui mi pare di poter concordare – di depotenziarne la deflagrante portata teologica. È questo, solo per fare un esempio, il caso del documento emanato dal Vaticano nel 1981, in coincidenza con l’Anno delle persone con disabilità promosso dalle Nazioni Unite, significativamente intitolato “a quanti si dedicano al servizio delle persone con handicap” in cui non si trova una parola che scandagli teologicamente il nesso tra creazione e dolore incolpevole, mentre ci si occupa, certo lodevolmente, del riconoscimento dei diritti di queste persone sia nella società civile – con particolare attenzione a quello al lavoro – sia nella stessa Chiesa.

L’insufficienza dei paradigmi tradizionali avrebbe generato anche l’atteggiamento assolutamente contrario a quello di chi cerca, tra mille aporie, di compaginare il dolore incolpevole in un quadro di senso. È questa la risposta di certo nichilismo contemporaneo per cui il dolore sarebbe un disvalore assoluto, un’esperienza non solo da rifuggire, ma da cui preservarsi tenendo lontano dagli occhi chi ne è colpito. É questo il mondo della distrazione che, però, non è prerogativa del nostro tempo, essendo stato già acutamente scandagliato da Pascal.

Oltre i grandi racconti, Mancuso ci invita, e qui le sue pagine assumono toni di una struggente intensità, a restare nell’ assurdo della Croce, nello scandalo, impensato e non pensabile, del dolore innocente per eccellenza che oggi si rinnova in ogni incolpevole, ferito sì, ma talora non totalmente prostrato: perché – e qui il teologo ha ragione – l’amore, più forte della morte, resta, oltre l’intelligenza, come ultimo parametro di giudizio. È di questo amore, dato o negato che ciascuno, alla sera della vita renderà conto.

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