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Professione docente: quali competenze?

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di Patrizia Paoletti

 

Come ad ogni inizio di anno scolastico si è soliti riflettere su quello passato e, dopo il meritato riposo estivo, si ha uno sguardo diverso da quello stanco e stressato di fine anno.

Così si riparte daccapo, ma ogni nuovo anno non può essere lo stesso del precedente,  perché noi insegnanti non siamo gli stessi. Come i nostri studenti, del resto.

A proposito di noi, docenti, insegnanti-educatori, facilitatori dell’apprendimento, discenti noi stessi, migranti digitali: NOI siamo all’altezza dell’emergenza educativa, siamo capaci di intessere una relazione soggetto-oggetto (docente-disciplina), il cui obiettivo non sia solo la conoscenza di contenuti in chi ci sta di fronte, ma  anche quella formazione culturale–educativa e, perché no, anche affettiva?

Siamo pronti a far raggiungere in questi teen-ager obiettivi cognitivi, ma anche  affettivi? Il rischio è di plasmare teste senza cuore, intelligenze senza sentimento, geni incapaci di affettività .

Ecco, allora, che viene in aiuto  Mirca Benetton dell’Università di Padova, la quale mette in evidenza le competenze pedagogiche del docente, che vorrei qui elencare, salvo rimandare alla lettura del suo articolo sulla professionalità docente apparso su Nuova Secondaria (n.1, settembre 2013, pp.25-27).

Esse sono:

  • favorire lo sviluppo dell’identità personale;
  • promuovere autonomia e progettualità esistenziale;
  • valorizzare le differenze personali sviluppando le potenzialità mediante il sapere;
  • incentivare lo sviluppo della consapevolezza personale e dello spirito critico.

Cosa significa avere tali competenze?

Significa, in realtà,  essere un docente di un certo tipo, capace, ad esempio, di creare una relazione educativa basata su unità, continuità e coerenza, una relazione che sia motivante  e renda lo studente consapevole e compartecipe dell’azione messa in atto nel contesto educativo.

Significa aiutarlo nel suo percorso specifico di umanizzazione, rendendolo sempre più autonomo e responsabile nell’attraversamento delle situazioni contraddittorie e problematiche tipiche dell’adolescenza.

Significa riflettere e riesaminare creativamente in maniera personalizzata il processo di trasmissione e socializzazione della cultura comunitaria in modo che ognuno sia protagonista attivo nello sviluppo massimo delle proprie potenzialità.

Significa, infine, favorire il passaggio da una didattica trasmissiva ad una didattica attiva e promuovere nello studente la capacità di esercitare gradualmente il controllo sul sapere, incentivando la ricerca di nuove conoscenze e abilità e la scelta critica di ciò che è più rispondente  ai propri bisogni e desideri.

Si diviene, allora, come chi si impegna in <<un’attività di ricerca sulla propria pratica>> mettendo in moto <<un processo continuo di autoeducazione>>, in cui la riflessività offre l’opportunità di creare << la connessione effettiva >> con lo studente per un apprendimento–arricchimento reciproco (cfr. D. A. Schön, Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari , 1993, pp.304-5).

Mi piace ricordare il periodo di formazione ricevuto all’inizio del nuovo millennio e il mio incontro con studenti adulti in una scuola dove libertà e affetti venivano negati a causa della loro condizione detentiva. Il luogo e la situazione particolare mi interrogavano di continuo sul come e cosa insegnare per  proporre una didattica non scontata ma attraente e motivante.

Mi venne in aiuto un libro dal titolo originale, mai sentito prima, seguendo il quale ho scommesso sul mio modo di essere docente: Pedagogia degli affetti di B. Rossi, Editori Laterza, 2002.

Si può forse programmare una didattica degli affetti? Fu questa la mia prima domanda . Mi colpì in modo particolare questa frase: “ l’educazione del cuore è il cuore dell’educazione ” (p. IX). Mi addentrai nella lettura e trovando riscontro positivo nella mia persona e professionalità,  continuai a leggere fino ad abbandonarmi al lavoro su di me attraverso le griglie sulla formazione affettiva, sulla competenza affettiva, su come impostare una didattica della formazione affettiva, sulla gestione delle dinamiche affettive attraverso paradigmi metodologici, sull’auto-osservazione affettiva. Il tutto aveva come obiettivo il raggiungimento delle competenze professionali: saper essere, saper fare, saper comunicare (p.138).

Mi parve di scoprire un mondo nuovo, capace di dare risposte adeguate a tante domande che mi andavo facendo in quell’inizio scolastico così drammatico, in quel luogo così triste e pieno di dolore.

Alla fine dell’anno il successo fu quello di amare John e amare l’inglese come loro amavano l’inglese e anche … la loro insegnante.

 

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