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La politica e la manutenzione delle parole

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Cesare Maccari, "Cicerone denuncia Catilina", via Wikimedia Commons
Cesare Maccari, “Cicerone denuncia Catilina”, via Wikimedia Commons

Che le parole siano importanti per comunicare lo sappiamo tutti. Non tutti però sappiamo che attraverso le parole, possiamo cambiare la realtà. Ogni cambiamento infatti richiede un processo culturale che inevitabilmente ha a che fare con le parole. Le parole sono infatti strumenti del pensiero che ci consentono di entrare in comunicazione con la realtà, fino a renderne possibile il cambiamento. Attraverso le parole attribuiamo significati e determiniamo nuove visioni del mondo. Intervenire sul linguaggio, favorendo un uso appropriato e consapevole delle parole, significa dunque intervenire sulla realtà.

La crisi culturale in atto è caratterizzata da una perdita di significato delle parole. L’abuso o l’uso del tutto inconsapevole dei vocaboli del linguaggio politico, hanno fatto sì che essi perdessero la loro capacità trasformatrice e ci ha resi più vulnerabili al pressante gioco della manipolazione mediatica.

Se è vero che la parola è azione e che l’agire è atto politico, rifondare il linguaggio della politica significa dunque ripristinare la forza originaria delle sue parole. Contro ogni retaggio dell’ars oratoria di sofistica memoria, mirante più alla persuasione che alla ricerca della verità, contro la lingua del potere che mira più alla manipolazione che alla conoscenza, occorre dunque rilanciare la capacità di un uso appropriato delle parole, tornando a chiamare le cose con il loro nome.

Come ogni crisi umana, anche la crisi culturale può trovare una soluzione “tornando all’origine” delle parole, rifondando il linguaggio, a partire dalla riflessione etimologica. Si tratta di rileggere nei tratti salienti il percorso che ha determinato la nascita di ogni parola, comprenderne le condizioni storiche, per riuscire a coglierne il significato ed essere in grado di smascherarne gli abusi.

Tuttavia, come sappiamo, l’epoca in cui viviamo alle parole preferisce i numeri e al pensiero critico, il pensiero computazionale. Basta guardare il progressivo ridimensionamento nei programmi scolastici delle scienze umanistiche per accorgersi di una “buona scuola” che all’educazione della persona preferisce l’istruzione forzata e prematura di studenti-lavoratori per lo più minorenni. Eppure persino gli antichi greci, i quali certamente conoscevano bene i limiti della democrazia, sostenevano l’impossibilità della partecipazione alla vita politica prescindendo dalla paideia. Sono stati infatti i primi a sostenere l’indissolubilità del binomio educazione-democrazia e a ritenere che solo una persona “educata” al bene comune, può divenire un vero cittadino. Chi si fa carico oggi di questa educazione riguardo le nuove generazioni? Un tempo, la scuola – intesa come comunità educativa capace di far crescere in umanità, prima ancora che in competenze specifiche – prevedeva lo studio dell’educazione civica, che se non altro riusciva a fornire agli studenti un’introduzione al lessico politico. Oggi che anche questa possibilità sembra essere venuta meno, cosa viene proposto per formazione di cittadini consapevoli e responsabili?

Il rilancio di cultura politica partecipativa non può prescindere da una rivisitazione delle parole-chiave del linguaggio politico e da una ricomprensione del lessico civile. Non basta l’espressione del voto per cambiare le cose. Occorre che il voto nasca da un consenso consapevole e dalla partecipazione responsabile di chi è in grado di intendere il linguaggio della politica. Ecco perché, come ha detto Rosa Luxemburg, “chiamare le cose con il loro nome è il primo atto rivoluzionario”.

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