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Il pastore e la custodia del gregge – Lectio divina su Mac 6, 30-34

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Il Vangelo: Mc 6, 30-34

30Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. 31Ed egli disse loro: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un pò». Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. 32Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte.

33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. 34Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

La liturgia di questa XVI domenica del tempo ordinario ci pone il tema della responsabilità di coloro che sono chiamati a guidare il popolo di Dio. Nell’Antico Testamento, sin dall’inizio della monarchia, il re veniva normalmente indicato come pastore del popolo; lungo la storia della salvezza matura sempre di più la consapevolezza che il problema non riguarda soltanto il ruolo delle guide, ma i valori e il progetto comune che regolano la convivenza di tutto il popolo.

I profeti e l’idolatria dei “responsabili” del popolo

I profeti i più antichi, come Amos e Osea, avevano denunciato con forza lo stato di grave prostrazione in cui si trovava il popolo: “si spergiura, si dice il falso, si uccide, si ruba, si commette adulterio […] e si versa sangue su sangue” (Os 4,2).

Coloro che sono chiamati a governare non solo non prendono alcuna posizione rispetto a tali gravi situazioni, ma spesso ne sono anche responsabili. Il profeta solleva allora la sua voce a difesa del popolo: come denunciato da Geremia all’esterno Israele è umiliato da potenze straniere, mentre al suo interno sperimenta corruzione e depravazione: “neppure i sacerdoti si domandano: dov’è il Signore? Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno approfittato in nome di Bal e hanno seguito idoli che non aiutano” (Ger2,8). Per il profeta l’idolatria e l’abbandono di YHWH è la radice di tutti mali, una colpa che accomuna il popolo e i pastori. Il popolo corre spedito verso la rovina a causa dell’idolatria delle sue guide, che cercano appoggi capaci di offrire sicurezza solo apparenti e non di rispondere alle aspirazioni profonde dell’uomo: “I pastori sono divenuti insensati, non hanno più ricercato il Signore; per questo non hanno avuto successo anzi è disperso tutto il loro gregge” (Ger 10,21). Soprattutto nel periodo dell’esilio, dopo il fallimento delle guide politiche e religiose, Dio stesso è visto, nella predicazione di Ezechiele, come il vero Pastore del suo popolo. Tutta la Bibbia è attraversata dall’aspirazione di un pastore fedele, che risponda alle aspettative di Dio; alcuni momenti questa attesa diventa particolarmente intensa. L’attesa del Messia è presentata da Geremia come l’avvento di un “germoglio giusto”, inizio di una nuova stagione. Il germoglio è un riferimento al Messia davidico che custodirà il suo popolo. Nel deserto di una nazione prostrata e di capi indegni, il germoglio che porterà il nome di Signore-nostra-giustizia preannuncia una particolare presenza di Dio, pastore giusto, che salva e perdona.

Il riposo degli ‘inviati’

Nel Vangelo, Marco presenta Gesù come novello Davide, vero pastore. A ritorno della missione, Gesù conduce i suoi discepoli in un luogo deserto per riposarsi: Dio non lascia che i suoi figli siano sopraffatti dalla stanchezza e dalle preoccupazioni, ma interviene perché possano trovare riposo e ristoro. L’evangelista nel sottolineare la tenerezza di Dio utilizza una particolare espressione, “in disparte”, che rivela la particolare intimità che si stabilisce tra Gesù e discepoli: “essere in disparte” non è solo un’annotazione logistica, ma un invito alla confidenza, a stare con lui. Nel momento dell’istituzione del gruppo dei Dodici, proprio l’evangelista Marco sottolinea che essi sono chiamati “perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (Mc 3,14). Prima ancora che a fare, gli apostoli sono chiamati “a stare con lui in disparte”.

Un Dio dalla parte del suo gregge: la pazienza del Signore

Gesù poi prova compassione per la folla abbandonata: davanti alla debolezza e al peccato del popolo Dio non rimane indifferente ne si limita a una condanna senza appello, ma si mette a insegnare. L’insegnamento di Gesù non è ostentazione di sapienza, ma è un andare incontro alla radice del bisogno, lì dove l’uomo spera di incontrare una parola di vita che rigenera e sana, raccoglie e offre la speranza di un futuro.

“Nell’Antico Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era un’immagine del loro potere, un’immagine cinica: i popoli erano per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi. Proprio così Egli si rivela come il vero pastore. Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini” (Benedetto XVI). 

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