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“Oggi i cattolici in politica sono presenti ovunque e irrilevanti ovunque” – Intervista a Flavio Felice

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I risultati delle elezioni appena svolte hanno condotto vari partiti ad un ripensamento radicale della loro presenza nello scenario politico italiano. Questo ripensamento, per via di altre motivazioni affrontate con diversi interventi da una serie di intellettuali durante la campagna elettorale, deve riguardare anche il mondo cattolico. Quest’ultimo, nel giro di pochi anni, è passato dalla rilevanza nella società attraverso gli approcci della “presenza” e della “mediazione” alla quasi irrilevanza.

In uno scenario del genere è opportuno tornare a riflettere sul contributo che anche i cattolici possono dare alla politica italiana. Di questo tema parliamo con Flavio Felice. Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise, Felice è presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton e del Consiglio Scientifico dell’Istituto di Studi politici San Pio V. Insieme a Roberto Rossini ha da poco pubblicato, per i tipi della Morcelliana, il volume Laburismo cattolico. Idee per le riforme.

– Professore Felice, dopo la fine della Democrazia Cristiana e lo scioglimento del Partito Popolare i cattolici italiani impegnati in politica hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo di vari partiti operanti tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra. A più di vent’anni dall’inizio di questo percorso, a suo parere, quali sono gli esiti?

Non vorrei dare l’impressione di colui che, dalla propria comfort zone, si permette di giudicare le tante brave persone che si sono impegnate in ambito politico in una fase storica particolarmente difficile. Dopo lo scioglimento della Dc non era facile continuare a dirsi democristiani, la DC era stata travolta dall’onda nera di Mani Pulite, e chi ha avuto quel coraggio e quella perseveranza merita tutta la mia stima. I ri-fondatori del Partito Popolare hanno tentato un’avventura quasi impossibile, far valere le ragioni di un partito di centro quando in Italia era al culmine la retorica bipolare; ricordo che tutto il dibattito politico ruotava intorno alla sentenza: “o di qua o di là”.

La lacerazione di quel partito sarebbe stata solo questione di tempo. Infatti, mentre l’allora segretario politico del Ppi Rocco Buttiglione si alleava con Umberto Bossi e Massimo D’Alema, causando la fine del primo governo Berlusconi, per favorire un nuovo governo più spostato al centro e che vedesse l’alleanza “tattica” dei popolari – non dimentichiamo che quel Ppi, nel Patto Segni, ottenne il 16% alle elezioni del 1994 –, la corrente di sinistra del partito aveva già individuato in Romano Prodi la figura politica che avrebbe traghettato il Partito Popolare verso l’alleanza “strategica” con l’allora Pds.

La rottura era inevitabile e ha segnato la fine di una pur ridotta unità politica dei cattolici (unità peraltro mai esistita neanche ai tempi della Dc). I partitini che sono nati da quella frattura non hanno mai influito più di tanto nella vita politica. A destra si sono ridotti al lumicino, diventando il feudo di qualche notabile ex democristiano, e a sinistra sono confluiti e spariti nel Partito Democratico. Non mi sembra che gli esiti siano stati particolarmente significativi, ma probabilmente non poteva essere diversamente. È probabile che la situazione non offrisse altra soluzione: la legge elettorale, il sentimento diffuso nel paese, le differenti culture politiche che animano e rendono vivace l’arcipelago cattolico, sono tutte condizioni che dobbiamo tener presente quando analizziamo storicamente un fenomeno. Di fatto, la via – più o meno obbligata – che si è scelta ha condotto i cattolici ad essere presenti ovunque e ovunque irrilevanti.

Se penso a come sono andate le cose, tuttavia, al netto del fallimento di entrambe le ipotesi, non posso non riconoscere che l’ipotesi dell’alleanza “tattica” forse sarebbe risultata più utile oggi al governo del paese, rispetto all’alleanza “strategica” che ha condotto allo scioglimento del Ppi e alla formazione del PD.

– Nel recente passato, e in tono minore durante la campagna elettorale appena terminata, diversi politici e alcuni partiti si sono richiamati alle istanze del mondo cattolico tanto da configurarsi come rappresentanti di quell’area culturale e sociale. Ma, secondo lei, quali sono i rischi che si assumono in Italia quando qualche leader politico si fa portavoce dei cattolici?

Più che il rischio, temo che si incorra nel ridicolo e mi spiego. Sappiamo tutti che il cattolicesimo politico non è monolitico, ha trovato una parziale forma unitaria in momenti storici particolari, ma anche in questi momenti non sono mancate esperienze non riconducibili pienamente o affatto né al primo Partito Popolare di Luigi Sturzo né, tantomeno, all’esperienza democristiana del secondo Dopoguerra.

Possiamo ricordare il tentativo del Partito Cristiano del Lavoro di Giuseppe Speranzini e Romano Cocchi, nato da una costola del PP di Sturzo, oppure il Movimento Politico dei Lavoratori di Livio Labor e le tante esperienze che sono sorte, in maniera più o meno diretta, dal fertile ventre della Balena bianca. Se non possiamo affermare che la Dc abbia rappresentato l’unità politica dei cattolici, appare quantomeno ridicolo che qualche personaggio si intesti oggi la rappresentanza dei valori cattolici. Non è mai avvenuto e non può avvenire perché la politica è partigiana ed è giusto che resti tale.

Partigiana significa che i soggetti che partecipano al dibattito politico lo fanno consapevoli di essere portatori di istanze di parte, mentre la religione ha una proiezione universale e non può essere ridotta a questo o a quell’interesse, per quanto legittimo e condivisibile dai più. Inoltre, sappiamo che i processi politici di tipo democratico si svolgono nella consapevolezza che per la conquista, il mantenimento e il trasferimento del potere, nonché per l’assunzione della decisione politica, il metodo che riduce le ragioni della violenza e che massimizza la capacità di risoluzione dei problemi è quello dialogico: una infinita discussione critica su questioni di interesse comune.

Tale constatazione ci consente di affermare che la partigianeria non è solo un dato di fatto, ma è anche altamente preferibile a qualsiasi soluzione sintetica, con la quale si intende ridurre il grado di differenziazione, ovvero di plurarchia, nella società civile. Si comprende, dunque, come l’eventuale pretesa di rappresentare i valori cattolici da parte di qualche personaggio politico, anche qualora chi l’avanzasse fosse mosso dalle migliori intenzioni e fosse in specchiata buona fede (“chi sono io per giudicare?”), si scontrerebbe con la natura stessa del messaggio religioso – che è di per sé universale e non partigiano – e con la preferenza per il metodo poliarchico e plurarchico tipico della società aperta.

– Durante la campagna elettorale, diversi quotidiani nazionali hanno ospitato interventi di intellettuali cattolici i quali hanno riflettuto sull’attuale rilevanza dell’impegno dei credenti in politica. Che idea ha maturato in merito a questo dibattito?

Si, è capitato anche a me di intervenire a più riprese e, in modo particolare, insieme al professor Dario Antiseri. Abbiamo sostanzialmente affermato quanto ho detto poc’anzi, ossia che i cattolici oggi sono presenti ovunque e irrilevanti ovunque: questa è stata ed è l’agghiacciante situazione.

Attenzione, ci tengo a ribadire, persone anche bravissime e di prim’ordine, impegnate nei diversi partiti negli anni della diaspora, accampati in tende, nelle differenti formazioni politiche, il loro destino si è sostanzialmente risolto in vassallaggio, con magari “diritto di tribuna”; e nemmeno sempre. Ci siamo chiesti con Antiseri, è stata un’operazione lungimirante soffocare e spegnere la speranza della nascita di un partito “di” cattolici che a Todi sbocciava attorno ad una serie di proposte e di progetti elaborati alla luce della dottrina sociale della Chiesa, del pensiero di Sturzo e dell’economia sociale di mercato?

Non ci sono davvero ragioni per respingere la resa di quanti, rassegnati, da tempo non si stancano di ripetere, appestando l’aria di anestetico, che quello che resta ai cattolici è un compito esclusivamente prepolitico e che solo ad “altri” spetti fare politica? Ci si appella alla libertà di ogni singola coscienza per dire che i cattolici possono votare per qualsiasi partito, senza doversi intruppare in un unico partito “dei” cattolici. Certo, ma è anche una libera scelta di libere coscienze quello di tentare di costituire un partito “di” (assolutamente non “dei”) cattolici, ansiosi di contribuire alla migliore soluzione dei problemi più urgenti del paese. Senza un partito politico il destino dei cattolici non potrà non risolversi in una sostanziale irrilevanza o in un inevitabile vassallaggio, dove, al massimo emerge qualche “catto-consulente” di un ministro o di un partito.

Abbiamo concluso ricordando che c’è un mondo cattolico sano, generoso e responsabile – si pensi alla Caritas, alla Sant’Egidio, alla San Vincenzo, al Banco alimentare, alle varie organizzazioni di volontariato – senza del quale il nostro paese collasserebbe e che è sostanzialmente e irresponsabilmente escluso dal sistema dell’informazione. Chi rappresenta questo mondo fatto di scuole cattoliche, di oratori e di tutti i servizi pubblici che i cattolici quotidianamente svolgono? La truppa – sempre comunque estesa – non ha mai disertato, ma ha atteso in vano uno stato maggiore.

– Nel suo ultimo libro, scritto insieme all’ex presidente Nazionale delle ACLI Roberto Rossini, ha affrontato il tema del laburismo cattolico come contenitore storico-ideale in grado di offrire per l’oggi delle idee in vista delle riforme tanto necessarie al nostro Paese. Di che si tratta?

Si tratta del tentativo, credo abbastanza inedito e spero ben riuscito, di offrire una panoramica sull’impegno politico dei cattolici, favorendo il superamento di quelle storiche distinzioni a cui ho fatto cenno all’inizio di questa intervista e che hanno condotto all’inevitabile spaccatura del ricostituito Ppi, dopo lo scioglimento della DC.

Proprio perché, con Roberto Rossini, siamo convinti che le culture politiche contino e sarebbe l’ora di tornare a parlarne, abbiamo pensato di scrivere un libro in cui due ipotesi di culture politiche cattoliche, sbrigativamente liquidate come “sociale” e “liberale” – come se sociale non possa essere liberale e liberale sia incompatibile con l’istanza sociale –, entrano in un dialogo aperto, franco e, perché no, conflittuale.

L’idea che ci ha spinti ad andare in questa direzione è stata di offrire il nostro dialogo, senza pretendere di trovare necessariamente una sintesi, nel rispetto del lettore, il quale sarà libero di fare la propria sintesi ovvero alcuna sintesi, sposando le tesi dell’uno o dell’altro, ovvero nessuna delle due. Venendo ai contenuti, abbiamo ritenuto che il lavoro, in tutte le sue espressioni, sia la colonna portante di ogni società e che quella attuale sia una fase di passaggio estremamente critica.

Non c’è dubbio che oggi il lavoro sconti una fase critica, ma il suo contributo sarà sempre creativo, l’esito di una “soggettività creativa” che si proietta nel campo del civile, dando forma alle istituzioni, promuovendo uno spirito riformatore, disinnescando le tendenze oligopolistiche e ostacolando i rigurgiti neofeudali. Abbiamo pensato di scrivere questo libro per contribuire alla riapertura di un grande dibattito che le culture politiche attuali dovrebbero recuperare, rinnovare e riproporre, anche per ridare forza al patto costituzionale sottoscritto negli anni Quaranta.

Credo che tale dibattito sia necessario se chi si occupa di politica avverte ancora la necessità di connettersi alla vita reale delle persone, le stesse che vivono in famiglia e che lavorano. In questo auspicato dibattito, ci siamo chiesti quale potesse essere il ruolo dei cattolici, ma, soprattutto, ci siamo interrogati su che cosa possono fare i cattolici oggi per rafforzare la spinta inclusiva che dovrebbe assumere la democrazia del nostro paese.

– Giorgia Meloni, una donna cresciuta all’interno della destra sociale italiana, sarà con ogni probabilità il prossimo presidente del Consiglio. Questa elezione, e tutto quello che ne seguirà, rende l’Italia una sorta di “laboratorio politico” per il resto dell’Europa?

È difficile dirlo sempre e comunque nei confronti di chiunque abbia vinto le elezioni, ma diventa ancora più difficile se a vincerle è un partito che nel giro di quattro anni è passato dal 4 al 26%, erede diretto di una cultura politica che ha profondamente e, per quanto mi riguarda, negativamente segnato la storia del nostro paese. Che cosa significa per l’Italia, per l’Europa e per il mondo che il prossimo governo sarà a guida Meloni? Per l’Italia significa innanzitutto che è definitivamente venuta meno la scommessa dei centristi e dei cosiddetti moderati di esprimere il baricentro di quello schieramento politico.

Può darsi che la Meloni voglia traghettare il suo partito verso posizioni conservatrici in senso europeo e anglosassone, lo vedremo e la giudicheremo per questo, ma di certo non saranno coloro che da anni occupano quello spazio politico – e penso a Forza Italia e ai vari cespugli post democristiani – a poter rivendicare una centralità nell’azione del governo.

Volendo analizzare la situazione attuale, cercando di comprendere le preoccupazioni, senza per questo cedere alle passioni ideologiche dell’uno e dell’altro schieramento, credo si possa dire che in Italia il conservatorismo, ad oggi, si sia distinto anche per fenomeni populistici e sovranisti, oltre che da una mai sopita nostalgia neofascista, che trova spazio anche nel partito di “Fratelli d’Italia”; è la nostra storia, non possiamo ometterla, non possiamo dimenticare il fatto che gli italiani sono stati fascisti. Sappiamo che il fascismo appartiene ad un determinato momento storico e che si esprime mediante la conquista e il mantenimento del potere attraverso la violenza.

Da questo punto di vista, il fascismo oggi sarebbe improponibile, per cui potrebbe non avere alcun senso sventolare le bandiere dell’antifascismo. D’altra parte, sappiamo anche che i fenomeni politici non sono mai definitivamente consegnati alla soffitta della storia e che anche il fascismo, inteso come cultura politica che “quasi” divinizza il compito della politica e assegna all’autorità il compito di grande sacerdote di tale religione pagana, è una minaccia sempre attiva, a prescindere dalle forme che essa può assumere nelle varie epoche storiche, per cui potrebbe avere sempre senso definirsi antifascisti.

È vero che l’Italia spesso ha rappresentato un laboratorio politico e una vittoria così schiacciante della destra potrebbe anche condizionare l’opinione pubblica occidentale e favorire i tentativi di chi, pur per ragioni opposte, da Oriente a Occidente, da destra e da sinistra, vorrebbe condizionare la vita democratica liberale e sacrificarla, rispettivamente, sull’altare delle “democrazie illiberali” e sovraniste ovvero “radicali” e autodefinite “progressiste”.

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