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“Non rinunciare ad essere voce critica”. Intervista a Maurizio Gentilini su cattolici e politica.

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Una questione ancora di primo piano: i cattolici e la politica

Nonostante la fine della Democrazia Cristiana agli inizi degli anni Novanta, la relazione fra cattolici e politica resta fra i temi principali del dibattito nel nostro Paese. In merito agli ultimi risvolti di tale questione, abbiamo intervistato Maurizio Gentilini del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

 – L’intervista rilasciata dal cardinale Camillo Ruini al Corriere della Sera di qualche giorno fa ha generato un dibattito all’interno del mondo cattolico. Il cardinale, fra le tante cose, ha espresso un parere non molto positivo verso l’esperienza del cattolicesimo democratico in Italia e verso gli attuali tentativi di costituire un contenitore che raggruppi almeno una parte degli esponenti dei laici cattolici. Ha ragione il cardinale?

Un’uscita – quella del cardinale Ruini – che ha destato un certo dibattito e molte perplessità. È arrivata sulle pagine del Corriere della Sera in un momento particolare, in una temperie politica estremamente fluida, una situazione di governo molto fragile, un contesto ecclesiale dove sembra che l’attenzione su ciò che divide prevalga su quel che unisce.

Non ultimo, l’intervento è arrivato immediatamente a ridosso della presentazione di un’iniziativa, proveniente da alcuni ambienti ed esponenti di spicco del laicato cattolico nazionale, dedicata all’impegno diretto in politica, facendo proprie alcune recenti esortazioni del papa e del presidente della CEI Bassetti.

I tempi e i contenuti del pronunciamento del cardinale si connotano quindi come un’iniziativa attentamente studiata e calcolata in tutte le sue parti. Tutte le argomentazioni di Ruini, garbate e articolate, sono lo specchio della sua visione della Chiesa, della sua concezione del laicato e delle modalità con cui ha curato i rapporti con la politica, nel corso dei quasi vent’anni in cui ha guidato la Conferenza episcopale (con poco riguardo alla natura collegiale dell’organismo).

Anni nei quali ha prevalso la logica del dialogo diretto, delle mediazioni e degli accordi tra i vertici della Chiesa e la parte politica che – nei vari momenti – deteneva il potere; la linea dell’appoggio a forze politiche e candidati che (solo) all’apparenza si professavano difensori dei principi cristiani, ma più che altro si rivelavano “più permeabili” alle richieste di parte ecclesiastica, utili all’ottenimento di risultati e benefit immediati; la stagione dei “valori non negoziabili” (proposti come barriera ideologica e quindi astratta) …e ritrovandosi a negoziare laicamente attraverso compromessi sempre al ribasso e per miseri piatti di poco nutrienti lenticchie.

Una stagione che ha provocato l’isterilimento (probabilmente irreversibile) di ogni soggettività di pensiero e di autonomia nell’azione politica dei cattolici, l’abbassamento del livello culturale della proposta, conseguente alla mancata attenzione formativa delle comunità cristiane, soprattutto in materia sociale; un periodo in cui l’associazionismo cattolico tradizionale venne indebolito nei suoi vertici, applicando logiche di rigida cooptazione da parte della gerarchia, e creando associazioni e gruppi di pressione funzionali ad azioni di lobbying e a organizzare manifestazioni di piazza. A distanza di anni, sarebbe ora di fare un bilancio di ciò che ha prodotto quella linea in termini di contenuti e di risultati politici.

Comunque, tornando all’intervista, l’impressione è che il cardinale non riesca a rassegnarsi alla tentazione di non esercitare la “potestas indirecta in temporalibus”, teorizzata da Roberto Bellarmino quattro secoli fa.

– Ruini ha anche affermato che, da parte dei cattolici, è ora di cominciare a dialogare con Matteo Salvini. Condivide? Perché?

La Chiesa dovrebbe tornare a educare il proprio popolo per renderlo conscio di cosa si intenda per dottrina sociale e capace di cogliere la differenza tra “quel che è di Cesare e quel che è di Dio”; per renderlo capace di ispirare e valutare linee politiche e iniziative che vadano incontro alle esigenze della comunità e di una concezione integrale della persona e della sua dignità, così come non rinunciare ad essere voce critica davanti a scelte che negano la pace e la coesione sociale.

A quel punto chi alza steccati, incita all’odio, adotta provvedimenti in contrasto con il Vangelo e con un’antropologia cristiana che è nell’interesse di tutti e non solo di una parte, avrebbe di fronte un interlocutore maturo e autorevole, consapevole che si può e si deve dialogare con tutti.

Un dialogo ben diverso dal tentativo di rievocare vecchi collateralismi, che mi sembra sotteso all’intervista di Ruini e che in questo momento storico non farebbe che aumentare la confusione e acuire le divisioni intra-ecclesiali rispetto alla linea dettata da papa Francesco, giustamente indirizzata a far prevalere la via dei poveri.

La stagione degli slogan dei “valori non negoziabili” ha provocato anche, e soprattutto, l’effetto che in molti strati della società e del mondo cattolico italiano si dissolvesse il senso della solidarietà e della giustizia sociale, e spesso dell’umanità.

– Intanto diverse associazioni sul territorio nazionale hanno sottoscritto un manifesto della rete denominata “Politicainsieme” per costituire un’aggregazione politica cristianamente ispirata. Quali, secondo lei, sono le virtù e i difetti di tentativi di questo tipo? E quale apporto possono generare a favore della politica in Italia?

L’iniziativa è sicuramente interessante e degna di rispetto. Mi sento però di formulare qualche valutazione a riguardo. All’indomani delle recenti elezioni europee – ma anche di altre tornate elettorali degli ultimi anni – l’analisi del voto ha dimostrato che più della metà dei praticanti si è orientata verso l’astensione; la restante parte è frammentata e divisa tra un po’ tutte le forze che animano il panorama politico. Trovo che recuperare un elettorato conscio dell’importanza di una testimonianza cristianamente ispirata in un contesto laico rappresenti un labor improbus.

Per troppo tempo è mancato l’investimento nella funzione di formazione delle coscienze in campo politico e civile, l’affidamento al laicato cattolico della giusta fiducia e autonomia nel discernere e decidere, il rispetto per la laicità di ruoli, tempi e luoghi. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è stato l’isterilimento di una tradizione di pensiero e di una presenza che, in un passato ormai non più prossimo, aveva garantito all’Italia e all’Europa un livello di progresso civile e democratico mai raggiunto prima.

La secolarizzazione della società e della cultura e le forze che la sostengono non hanno perso un punto, guadagnando l’afasia, l’inconcludenza, la marginalità del mondo cattolico e di ogni istanza e proposta di valore civile che da esso provenga, incapace di fare sintesi e di incidere in uno scenario di complessità culturale e pluralismo religioso.

Per quanto riguarda poi il manifesto e il progetto in questione, vedo un po’ troppi volti noti, che nella propria carriera politica si sono spesso distinti per scelte dettate dalle opportunità e dagli opportunismi, e per lasciare poco o nullo spazio ai giovani.

– Da studioso di due cattolici impegnati in politica come don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, può dirci cosa c’è di attuale nel loro messaggio tanto per i credenti quanto per l’intera comunità nazionale?

Cento anni fa l’appello “A tutti gli uomini liberi e forti”, le cui prime righe recitano: “che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà”.

Un invito, concepito da don Luigi Sturzo e da un gruppo di intellettuali cattolici, che sanciva la nascita del Partito popolare italiano. Un’esperienza che nasceva all’indomani della tragedia della prima guerra mondiale, proponendo un partito ispirato dai principi della dottrina sociale della Chiesa ma dal carattere laico e aconfessionale, con una precisa concezione dello Stato: dalle solide basi democratiche, con una chiara visione dei contesti internazionali, distante dalle concezioni dello stato etico ottocentesco e diverso delle tradizioni politiche fin lì maggioritarie (liberale e socialista), propugnatore di un’economia distante dal protezionismo e dall’assistenzialismo statale, difensore dei diritti dei lavoratori e della piccola proprietà, promotore del regionalismo e del ruolo delle autonomie locali, con una particolare attenzione alla questione meridionale.

Un programma scarno, organizzato in dodici punti, basato sulla tutela dell’integrità della famiglia e su una attenta legislazione sociale e assistenziale, sullo sviluppo della cooperazione, sul decentramento amministrativo, sulla libertà della Chiesa; che prevedeva il sistema elettorale proporzionale, il voto femminile, il rispetto dell’ordine internazionale garantito dalla Società delle Nazioni, la coscrizione obbligatoria e il disarmo universale.

Un partito che si caratterizzava per una forte tensione etica e civile, per l’attenzione ai problemi reali del popolo, alle attese di una pace secondo giustizia e alla necessità di profonde trasformazioni delle istituzioni.

La stagione del partito popolare, che vide Alcide De Gasperi tra i suoi protagonisti di primo piano, fu intensa ma breve. Non resse all’avanzata del fascismo e all’annullamento della democrazia in Italia. Così come non ottenne un adeguato appoggio dai vertici della Chiesa, maggiormente interessati a risolvere il dissidio con lo Stato italiano che sarebbe stato coronato con i Patti lateranensi del ’29.

Il recupero del senso del popolarismo sturziano consiste nel riconoscere nel bene comune il principio di orientamento fondamentale dell’agire politico e il rifiuto di logiche prigioniere di particolarismi, che rendono impossibile individuare mete condivise e che inducono alla tentazione della protesta sterile, del disimpegno e del qualunquismo. Un antidoto contro i populismi di varia matrice che oggi imperversano in ogni spazio del pubblico confronto, fino alle aule parlamentari. Quindi, “liberi” nella coscienza, necessaria a mettesi in gioco oltre il calcolo personale, e “forti” nella fedeltà alle proprie scelte e di fronte a ogni ostacolo.

– Proprio Alcide De Gasperi è da annoverare fra i padri fondatori dell’Unione Europea. La sua idea, lontana dall’attuale assetto del continente, può tornare utile tanto per riformare quanto per definire il quadro politico-istituzionale europeo?

 L’Europa è ancora un soggetto forte per popolazione, reddito, dimensione del mercato, risparmio privato, ricchezza finanziaria, bilancia dei pagamenti attiva, conti pubblici in costante consolidamento, senza considerare il peso della cultura e della sua storia. Non è però riuscita a generare un pensiero politico e strutture capaci di cementare la solidarietà tra le nazioni che la compongono. Questa era la visione e il programma dei padri fondatori, in primis De Gasperi. Oggi, più che allora, è impossibile ipotizzare una politica europea senza considerare il più generale panorama geopolitico e le condizioni della finanza globale.

L’Europa, vista sin dal risorgimento come un sogno, indicata come esigenza durante la battaglia antifascista, costruita con determinazione e coraggio dopo la guerra per garantire la pace, oggi si presenta non come opportunità ma come necessità che assume caratteri di assolutezza. Un nuovo paradigma tra dimensione economica e dimensione politica, forme di solidarietà tra stati membri – si pensi solo alla questione dell’immigrazione – che comportino anche una politica estera unitaria, un sistema di difesa comune che coinvolga sempre più la sfera politica, risposte concrete alla minaccia sovranista e populista. Questi i caratteri della sfida che dobbiamo affrontare.

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