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Ma i giovani sanno ancora pensare?

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Ci preoccupiamo di insegnare di tutto, ai nostri figli, fuorché a pensare. Con il risultato che sono capaci di fare tante cose, più o meno bene, ma non di analizzare in maniera critica un problema, di esprimere compiutamente un pensiero, di strutturare un ragionamento. È come se avessimo dotato i giovani di tanti strumenti, in grado di svolgere mille funzioni, ma ci fossimo dimenticati di accludere il libretto delle istruzioni. E l’avvento delle nuove tecnologie, con la loro pervasività, per altri versi portatore di novità positive, di certo non aiuta. È il momento di lanciare l'”Allarme pensiero”, come recita l’incisivo titolo di un convegno che domani vedrà impegnati esperti di diverse discipline all’Università Cattolica e promosso da Pubblicità Progresso e Spaee, il Servizio di psicologia dell’apprendimento e dell’educazione in età evolutiva dello stesso ateneo.

 Avete mai osservato, ad esempio, come guardano la televisione i ragazzi? Si sintonizzano sulla loro trasmissione preferita, ma non si accomodano su una poltrona, tutt’al più con la tazza del caffè o il giornale in mano, come faremmo noi adulti. No, oltre alla Tv, accendono il computer: in diretta, attraverso Internet, reperiscono informazioni sui personaggi, sulle trame, sulle “citazioni”, mentre ne discutono con amici e coetanei sui social network. Gran parte del loro tempo si consuma davanti a uno schermo: televisivo, di un pc, di un cellulare (sempre più simile a un computer), di un tablet, di una consolle per videogiochi. Spesso anche mentre fanni i vecchi compiti per casa su un vecchio quadernone o un libro, continuano a interagire con questi supporti.

 Demonizzare le nuove tecnologie sarebbe inutile, controproducente e anacronistico.

 

Il problema è: imparare ad utilizzarle con intelligenza, riducendo al minimo gli effetti collaterali ed esaltandone quelli positivi. Un tema che dovrebbe essere centrale quando si parla di introduzione delle tecnologie nelle scuole: far passare l’ingresso di lavagne elettroniche, Limbook (libri in versione digitale), tablet e altro nella classi come una rivoluzione, senza chiedersi se la scuola insegni a usare correttamente questi strumenti, è fuorviante e poco onesto.

 Proviamo ad aggiungere qui qualche idea. La prima è quella di copiare quanto sta accadendo nelle più prestigiose università americane, Harvard e Princeton in particolare. Tutti gli studenti, compresi quelli che frequentano corsi di materie tecniche e scientifiche, sono chiamati a dare alcuni esami di letteratura, quindi a leggersi un certo numero di romanzi, sui quali dovranno poi lavorare in maniera critica (analisi del testo, sintesi, ecc.). L’illuminato ragionamento dei dirigenti di quegli atenei è che a tutti, compresi i futuri ingegneri, economisti, tecnici, sarà utile un approccio critico, flessibile, al tempo stesso analitico e sintetico, ai problemi. Se le discipline scientifiche garantiscono contenuti e saperi necessari, quelli umanistici forniscono invece strumenti intellettivi che formano il pensiero.

Qualche tempo fa l’Unesco promulgò una Raccomandazione ai Governi, affinché inserissero lo studio della filosofia nelle scuole, fin da quelle primarie. “Filosofia, una scuola di libertà” era il titolo della Raccomandazione. Fare in modo che il bambino impari – peraltro assecondando un’innata predisposizione alla meraviglia e alle domande – a usare il proprio pensiero, accostarsi in maniera critica a un contenuto, qualunque esso sia, esprimere correttamente le proprie idee significa aiutarlo a diventare una persona compiuta e intelligente e un cittadino responsabile.

Sarebbe bello che nei programmi dei politici questi temi trovassero un po’ di spazio.

 Qui proponiamo qualche stralcio dell’intervento che terrà Alberto Contri, presidente di Pubblicità Progresso e docente di Comunicazione sociale all Iulm di Milano, al quale spetterà il compito di aprire e chiudere l’intensa giornata di lavoro. In particolare, vanno sottolineate le idee concrete che il docente mette in campo per dotare i giovani, partendo dalla scuola, della capacità di un pensiero critico.

 «L’allarme “pensiero destrutturato dei giovani” potrebbe apparire come isolata tesi di qualche conservatore che non si vuole arrendere alle magnifiche sorti e progressive del progresso legato allo sviluppo di tanti nuovi media, o alle nostalgie di qualche “laudator temporis acti”. È invece il frutto di una attenta osservazione sul campo condivisa con molti docenti universitari (…) Il vulcanico sviluppo dei mezzi e delle tecnologie di comunicazione avvenuto negli ultimi venti anni, ci ha messo e ci mette a disposizione una quantità impressionante di strumenti capaci di aumentare le nostre conoscenze e le nostre informazioni, ovunque ci troviamo e in qualsiasi momento. E questo è un fatto di cui sarebbe sciocco non apprezzare la portata. Ma sarebbe altrettanto sciocco ignorare che l’uso non appropriato o addirittura compulsivo di questi mezzi può generare effetti collaterali anche gravi, come quelli rilevati in un crescente numero di studenti universitari.

 Già all’inizio del fenomeno, autorevoli studiosi di mass media come Nicholas Negroponte e Ira Carlin ci mettevano in guardia dal pericolo dell’information overload, che oggi viene indicata addirittura come uno degli elementi scatenanti le sindromi da stress correlate alla IAS (Internet Addiction Syndrome). Proprio su Wired, il periodico di riferimento del web, si poteva leggere: “Con la mente sempre fissa sull’informazione, la nostra attenzione svanisce. Dedichiamo sempre meno tempo ad un numero sempre maggiore di singoli pezzi di media, e così finiamo per collezionare frammenti”. Senza volerci addentrare nel campo di patologie specifiche (…) preferiamo concentrarci sulla causa che sta generando tutti i problemi che abbiamo riscontrato: il vivere in un’era che abbiamo definita “della costante attenzione parziale”. Un’era in cui un’illusione di tipo chiaramente paranoide ritiene che il cervello umano possa diventare “multitasking” come quello di un computer.

Ora, c’è oramai una mole di studi scientifici che dimostrano (…) che le aree del cervello destinate ad immagazzinare i ricordi (che inoltre sono frutto di complesse interazioni tra meccanismi biochimici, elettrici, emotivi e altro ancora) possono fare non più di una o due operazioni contemporaneamente, pena l’esclusione dal proprio orizzonte cognitivo della terza e delle altre, relegate in “buffer” estremamente volatili, tanto per usare un linguaggio informatico. (…) Secondo una ricerca dell’Università di Stanford, ogni minuto vengono effettuate circa 695.000 ricerche su Google, caricati 600 video su Youtube per un totale di 48 ore, caricate 6.600 foto su Flickr. Ma non solo. Vengono pubblicati 695.000 aggiornamenti di stato, circa 80.000 messaggi in bacheca e 510.040 commenti su Facebook e 98.000 tweets su Twitter. Più di 370.000 minuti di chiamate vocali vengono effettuate dagli utenti Skype, 20.000 nuovi post pubblicati su Tumblr.

Lo stesso McLuhan, ne Gli strumenti del comunicare, mentre da un lato inneggiava allo sviluppo delle nuove tecnologie, dall’altro aveva la lucidità di affermare che avrebbero potuto anche indebolirci, giungendo ad intorpidire proprio quelle parti del corpo che intendevano amplificare, in particolare “addormentando le nostre capacità più naturali e più intime, quelle del ragionamento, della memoria e dell’emozione”. Gli effetti delle profezie di Culkin, di Negroponte, di Carlin, di McLuhan e di tanti altri sono plasticamente rappresentati nella foto di una studentessa di oggi, ritratta mentre è impegnata nel suo abituale “mutitasking”. L’immagine della nuova dea Khalì esprime bene il problema della “costante attenzione parziale”: è del tutto evidente che dedicando una porzione sempre inferiore della sua attenzione a molteplici attività di carattere emotivo/cognitivo (gioco, emozione, informazione), il soggetto tende ad incamerare frammenti di realtà. E quando si troverà nella necessità di doverli rielaborare, inevitabilmente ricostruirà nel migliore dei casi un quadro composto da frammenti, e nel peggiore dei casi quello di un pensiero destrutturato del tutto privo di senso critico, che è per sua natura frutto di una vera e propria ginnastica di concentrazione, nella fattispecie assai poco presente. (…)

 Nonostante la situazione sia davvero grave, esistono una serie di soluzioni che potrebbero essere messe in pratica con pochissima fatica e soprattutto senza dispendio di risorse economiche o investimenti particolari. Ne proponiamo alcune:

 1) Reintrodurre, potenziandola, la pratica del riassunto nelle scuole elementari.

 2) Riprendere con maggiore impulso l’insegnamento di greco e latino e del pensiero classico.

 3) Non lasciare i bimbi soli davanti alla tv, limitarne l’uso ai programmi adatti alle diverse età, cercare di instillare loro il senso critico spiegando loro cosa stanno vedendo.

 4) Privilegiare l’orientamento ai videogiochi di ruolo, che insegnano a ragionare e a studiare strategie, e a quelli che contengono indiretta ispirazione a speculazioni di carattere fisico, matematico, eccetera.

 5) Sviluppare nel liceo l’interazione personale e l’attitudine al dialogo e alla costruzione di un pensiero proprio.

 6) Vietare rigorosamente l’uso del cellulare in classe.

 7) Vietare l’uso del computer, tablet o di altri sussidi elettronici se non in caso di ricerche e sperimentazioni sorvegliate.

 8) Portare gli insegnanti, con appositi corsi, allo stesso livello di conoscenza delle tecnologie informatiche dei loro allievi. Più in generale, tornare a far contare gli studenti su capacità che risiedono all’interno di loro stessi e non residenti altrove, come server e software intesi come protesi esterna del loro sé.

 

 

articolo pubblicato il 18/01/2013 su Famiglia Cristiana 

http://www.famigliacristiana.it/costume-e-societa/cultura/letto/dossier/giovani.aspx

 

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