Senza categoria

Libertà di parola, un ritratto di Cosimo Scordato

Loading

Sabato 30 novembre 2013, nella chiesa di san Francesco Saverio all’Albergheria di Palermo, sono stati festeggiati i 65 anni di don Cosimo Scordato (che coincidono con i 41 del suo ministero presbiteriale) con un incontro affollatissimo (almeno trecento persone), intenso emotivamente ma anche allegro.

Alla presentazione del suo libro appena uscito (Libertà di parola a cura di Maria D’Asaro e Ornella Giambalvo, Cittadella, Assisi), in cui sono state raccolte, in sette nuclei tematici, le trascrizioni di molte sue omelie domenicali, sono intervenuti mons. Domenico Mogavero (vescovo di Mazara del Vallo), mons. Nunzio Galantino (vescovo di Cassano sullo Jonio) e Augusto Cavadi. 

Qui, di seguito, i passaggi essenziali dell’intervento di quest’ultimo, che ringraziamo per averlo messo in comune.

 libertà_di_parola.jpg

 

di Augusto Cavadi

 

Molte volte si scrive un libro per nascondere il proprio vero “io”: ed è secondario che lo si nasconda per pudore o per strategia, per timidezza o per calcolo. Quale che sia la ragione, il risultato è un testo anonimo, senza paternità, e soprattutto senza autenticità.

Questo libro, che solo l’intelligente pazienza di due donne innamorate di don Cosimo – come molti di noi –  poteva riuscire a tessere in anni di lavoro, per fortuna e per grazia di Dio non è un testo che nasconde il volto dell’autore: al contrario lo racconta pagina dopo pagina e, alla fine, lo restituisce quasi integralmente.

 

 

1. La discrezione di Cosimo

“Ma come fai a dire quello che dici ” – mi sento già obiettare – “se Cosimo non cita mai se stesso, non riferisce mai episodi della sua vita?”. Proprio questa osservazione, del tutto fondata, mette in evidenza un primo aspetto della personalità di Cosimo: in un tessuto ecclesiale come quello meridionale in cui il prete approfitta dell’omelia per promuovere le proprie preferenze ideologiche, quando non addirittura i propri interessi di….”parrocchia”, egli si fa notare per la sua discrezione. Certo, ci vuole occhio fine per cogliere questa presenza per sottrazione: ma, con un po’ di attenzione, ci si può riuscire. Se volessi imbarazzarlo molto, direi che lo stile del suo essere-in-una-situazione è simile a quanto raccontano di Dio certe tradizioni cabbalistiche: Egli è presente nella creazione in quanto assente, crea facendo un passo indietro e così aprendo uno spazio di presenza, di libertà e di responsabilità all’universo. Ma non voglio imbarazzare molto Cosimo, mi basta imbarazzarlo poco: e allora, invece che evocare lo Zim-zum del Creatore, mi accontento di evocare lo stile di Gesù di Nazareth. Il quale non ha mai annunziato sé stesso, bensì il Regno di Dio: il vangelo non è cristocentrico, bensì teocentrico (o, se volessimo essere puntigliosi, regnocentrico). Queste omelie non sono cosimocentriche perché chi le pronunzia non è  il messsaggero di un proprio messaggio ma è, vuole essere, un continuo rinvio ad altro: all’Altro che è il Padre, all’altro che è il fratello.

Ci sono almeno due episodi che mi si sono ficcati nella memoria in proposito. Il primo è legato ad un’assemblea popolare in chiesa con il sindaco Orlando, alcuni assessori di una sua giunta di “Primavera” e alcuni alti burocrati del Comune. Gli ospiti si accomodarono sotto la balaustra, con le spalle all’altare e rivolti verso la gente: Cosimo  – me lo fece notare con la sua straordinaria finezza interiore Francesco Michele Stabile – si sedette con noi, in mezzo alla gente, alla sua gente. Per due ore non occupò il proscenio, evitò accuratamente di mettersi in mostra. Gesti come questo non si improvvisano: sono l’espressione spontanea di una convinzione profondamente maturata.

Il secondo episodio è un po’ triste perché legato alla risposta che mi diede un ex-amico quando gli chiesi come mai non venisse più a messa a San Francesco Saverio: “Perché mi disturba il protagonismo di Cosimo. E’ evidente che vuole occupare il centro della scena, monopolizzare l’attenzione su di sé”.  Ebbi la conferma di ciò che avevo da tempo sospettato e che non avevo voluto ammettere neppure a me stesso: che il mio amico di allora fosse un povero ambizioso, frustrato, che proiettava sugli altri le proprie velleità.

 

2. La fedeltà creativa di Cosimo

Nel giudizio ingiusto di quel mio amico di allora si nascondeva, “a sua insaputa”, un briciolo di verità: Cosimo non vuole farsi notare, ma bisogna riconoscere che invece lo si nota, anzi lo si ricorda a lungo. Perché? Mi limito a una caratteristica che emerge da queste omelie. Egli vuole essere fedele alla Parola di Dio: ma questa fedeltà consiste nel ripeterla come fossimo magnetofoni, pappagalli ammaestrati? O non piuttosto nell’interpretarla alla luce della storia in cui siamo immersi e da cui siamo sfidati? Egli non si sottrae al compito di interrogare la Bibbia a partire dalla quotidianità, dalla concretezza della cronaca. La sua fedeltà è l’unica fedeltà possibile nella tradizione biblica: è una fedeltà creativa. La Bibbia è cresciuta su se stessa proprio perché, sino a quando non è stato fissato un canone, ogni narratore aveva la libertà di ampliarla, approfondirla, attualizzarla. La Bibbia non è per i cristiani ciò che il Corano è per i musulmani: ai cristiani non importa custodire in bacheca un Libro per non farlo sporcare dalla polvere dei secoli, ma importa una storia – che continua sino ad oggi, che continuerà sino alla fine di questo mondo – di cui quel Libro è parziale, incompleta, narrazione.

 

3. La laicità di Cosimo

Questa discrezione – procedere con gli altri evitando di mettersi davanti agli altri – e questo senso critico li ho notato particolarmente perché, se sono virtù rare fra noi esseri umani, sono addirittura rarissime tra i preti. Qui tocchiamo una terza caratteristica del modo di essere e, dunque, di predicare di Cosimo: la sua laicità. Egli è prete tanto poco quanto Gesù è stato, per sua scelta convinta,  ‘sacerdote’.

Permettetemi di sottolineare questa laicità di Cosimo con un altro ricordo. Una sera arrivammo a Piazza Armerina per ricevere un premio antimafia destinato al nostro Centro sociale. Eravamo in tre, ma gli organizzatori non conoscevano di persona nessuno di noi. Quando entrammo, si fecero ossequiosamente avanti verso Nino Rocca – che avanzava serio, composto, con il capo chino –  accogliendolo con un “Benvenuto, padre!”. Nino sorrise e si schernì. Allora si rivolsero verso di me, ma anch’io dovetti confessare di non essere prete. L’ultima persona a cui pensarono era proprio Cosimo, anche nel portamento e nell’abbigliamento il più ‘laico’ de terzetto…

Lo vorrei dire, con toni più seri,  richiamando un’esegesi che Cosimo mi dettò nel corso di un’intervista che poi è diventato un libro, Fare teologia a Palermo, tanto fortunato editorialmente quanto snobbato o addirittura bollato come “robaccia” negli ambienti ecclesiali : quando la Lettera agli Ebrei dice che “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini (ex hominibus), ed è stabilito per servire Dio a vantaggio degli uomini”, che cosa voleva dire? Che Gesù “si è fatto uomo, e non angelo”, perché voleva vivere “tra gli uomini” e a servizio degli uomini. Ma – denunzia in quell’intervista Cosimo – la traduzione corrente, diventata “tratto fuori dagli uomini”, ha finito col “significare esattamente il contrario di quello che voleva dire l’autore”: “essa ha finito col legittimare nuovamente la concezione ‘pagana’ del sacerdozio che proprio la Lettera agli Ebrei intendeva ribaltare. Infatti, questa espressione e la sua traduzione hanno favorito l’idea che il prete deve essere ‘tolto via’ dal contesto umano, deve essere reso ‘diverso’ dagli uomini per poter poi, in questa condizione di estraneità, ‘intercedere’ a favore dei suoi simili. (…) Ma questo è esattamente l’opposto della visione cristiana!” nella quale “il ‘presbitero’, letteralmente ‘l’anziano’, non ha una ‘parte’ da recitare né tanto meno da far prevalere sugli altri: egli dovrebbe essere soltanto il ‘luogo’ visibile (perché il luogo in senso assoluto è lo Spirito di Cristo) in cui i ‘laici’ si incontrano”. E davvero Cosimo è stato ed è per molti di noi laici un ‘luogo’ di incontro, di fecondazione delle diverse identità culturali, di meticciato delle nostre diverse culture di provenienza.

 

4. Lo humour di Cosimo

L’invisibilità di Cosimo e la sua originalità malgrado sé stesso (“a sua insaputa”); il suo senso critico;  la sua laicità. Ma vorrei aggiungere almeno una quarta caratteristica che fa continuamente capolino nelle sue omelie: il suo humour. Capisco che ci può essere la tentazione di relegare a mero dato caratteriale della psicologia individuale di Cosimo questo aspetto, ma sarebbe una perdita: si perderebbe, infatti, lo spessore teologico e filosofico del suo umorismo.

Gli esegeti fanno notare che autori come il redattore del quarto vangelo, il vangelo secondo Giovanni, più toccano argomenti seri, anzi tragici, più provano a vedervi gli aspetti divertenti, paradossali. Padre Ignace de la Potterie ha potuto trattare l’ironia del vangelo secondo Giovanni che, per esempio, fa dire a Pilato che mostra alla folla Gesù condannato a morte: “Ecco l’uomo”. A quella gentaglia inferocita, che gli ha preferito Barabba, Pilato  – senza accorgersene – sta dicendo: “Ecco chi è il vero uomo, ecco il modello antropologico, ecco l’umanità come Dio avrebbe voluto che fosse!”. Cosimo prende la vita con… teologia, ma anche con…filosofia: è un maestro nell’arte di sdrammatizzare, di vedere le cose da un punto così alto che esse si ridimensionano e si manifestano nella loro piccolezza. Il suo distanziamento ironico è tipico di quelle personalità così sagge da  saper ridere, o per lo meno sorridere, delle miserie umane. Qualcuno direbbe che non è un uomo “pieno di sé”, ma “pieno di se”: di “e se fosse diversamente…?”.

Vorrei chiudere con due ricordi su questo tasto. Il primo è quando una ragazza del Centro sociale gli riferisce scandalizzata che un parroco della Palermo-bene, a cui si era rivolta per chiedere il permesso di vendere all’uscita dalla messa alcuni oggettini di natale preparati dalle donne del quartiere, le risponde: “No, cara ragazza. Restate a vendere i vostri regalini a Ballarò. Di’ a don Scordato che ognuno si munge la sua mucca”. Forse qualche altro prete sarebbe rimasto dispiaciuto, se non offeso, dalla risposta, ma Cosimo si limitò ad osservare seraficamente: “Dovete capirlo, il mio confratello è abituato a un linguaggio… pastorale”.

Scordato può risultare più o meno condivisibile, mai però prevedibile. Egli incarna come pochissimi altri esponenti del clero la libertà di chi, avendo meditato su un tema, avverte il diritto-dovere di dire ciò che ritiene giusto: sia che ciò coincida con l’insegnamento ufficiale del magistero romano del momento sia che se ne discosti profeticamente. Radicata nella libertà, la sua parola  – a sua volta – è liberatrice: alleggerisce, infatti, l’interlocutore dalle supefetazioni dogmatiche e dagli appesantimenti moralistici che possano soffocare la fede autentica nel vangelo. Ciò spiazza molti ascoltatori, come quel medico che – dopo un intervento di Scordato a un convegno di bioetica in cui mostrava la compatibilità dell’eutanasia volontaria con l’etica biblica – gli chiese, infastidito, se avesse parlato in forma ufficiale o meno; e si sentì candidamente rispondere con un lieve sorriso: “In forma sottufficiale”.

Vorrei continuare a lungo, ma mi fermo. Anche perché mi sembrerebbe di fare a mia volta un’omelìa funebre in memoria di un amico vivo, vivissimo. Anzi, a proposito della sua ironia, in un momento di affettuosa mestizia, mi scappò di dirgli che mi sarebbe piaciuto avere la possibilità, durante i suoi funerali, di dare la mia testimonianza di stima e di gratitudine nei suoi confronti. Ma Cosimo, senza voler spezzare il momento di tenerezza, si limitò a sussurrarmi: “Comunque, spero di essere io il primo a renderti questo omaggio”.

 

 {jcomments on}

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *