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Le tentazioni di Gesù – Mc 1, 12-15

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             Introduzione alla lectio divina su Mc 1, 12-15

        22 febbraio 2015 – I domenica del tempo di Quaresima (Anno B)

12 E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto 13 e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.  14 Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, 15 e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

 

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Le tentazioni di Gesù, Sandro Botticelli, 1480-1482, affresco,

Cappella Sistina, Città del Vaticano

 

Siamo agli inizi del vangelo di Marco, anzi agli inizi di tutti i quattro vangeli. Con insieme sapienza e aderenza storica Marco ha presentato come messaggero Giovanni Battista e in lui ha riassunto le voci di tutti i profeti dell’attesa messianica. Ma si parte da Giovanni, dal biblico già conosciuto, per giungere alla novità del Cristo, alla novità dirompente di quell’icona battesimale: “10E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. 11E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”.

“E subito …”, per tante volte ripetuto, dà il ritmo a questo capitolo inaugurale. Preda dello Spirito, come gli antichi profeti, Gesù viene spinto nel deserto perché questa sua messianicità e figliolanza divina vengano testate alla prova della fedeltà, come per l’antico popolo guidato nel deserto per il lungo cammino di liberazione: “2Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi” (Dt 8,2).

Quaranta indica l’esperienza di una vita e per questo Marco non esplicita le seduzioni del satana che riconosceremo nel corso del racconto come i soliti “saggi” inviti a servirsi del proprio potere e a non esserne il servitore, a non dare la vita, ma a darsi la vita, sino al momento finale sulla croce.

C’è la forza delle immagini a definire questa seconda icona di Cristo nel deserto: le bestie selvatiche rimandano alla ferinità che è in noi umani, che impazza come forza del male, di violenza e di prevaricazione, destinata a essere placata nella creazione riconciliata del tempo escatologico, guadagnato dalla non-violenza di Gesù, l’obbediente, “6Il lupo dimorerà insieme con l’agnello…” (Is 11,6-9); Gesù sceglie la fedeltà al progetto del Padre, che ridisegna in lui la sua immagine di libertà nell’amore e allora gli angeli che lo servono, saranno in Cristo legame comunicativo tra Dio e l’umanità, invitata a prendersi cura dell’altro, come Dio si prende cura dell’uomo.

Il deserto, con la sua funzione di sfrondamento, purificatrice e mistagogica, non è una fisicità geografica, ma un luogo del paese interiore. Perciò, a seguire, Gesù abbandona il deserto e l’esperienza giovannea, torna nell’emarginata Galilea, perché il suo posto è con gli uomini, in loro compagnia, nella polis, nelle sue periferie, alle dogane, in sinagoga, sulle spiagge dei pescatori e tra i campi di grano.

Non resta nel deserto, in aristocratica solitudine, ad aspettare gli uomini, ma va loro incontro nelle loro case ad annunciare “la gioiosa notizia di Dio”.

E non inizia col proclamare un penitenziale battesimo di conversione per il perdono dei peccati, ma un lieto annuncio a cui convertire gli uomini. Perché con lui cambia radicalmente la prospettiva. Il centro della predicazione sarà Dio fatto vicino e non pratiche religiose dell’uomo in una dubbia ricerca di pericolosa santità autocentrata. Non l’uomo che si inerpica vanamente verso Dio, ma Dio che scende, come lo Spirito, incontro all’uomo.

Sono veloci i tempi e le azioni racchiusi da Marco in questi due densissimi versetti. Ma il contenuto è spettacolare, irruente come irruente è l’azione di Cristo, attraverso cui il Signore irrompe a sua volta nella storia. In quattro movimenti, due attivi di Dio e due di risposta dell’uomo, teologia e antropologia si abbracciano per sempre.

Perché Il tempo è compiuto. Prima il Tempo teologico era il futuro. Il presente portava il marchio dell’inanità, del non senso. Con Gesù non c’è più altro da attendere. L’attesa dei profeti si sazia. Il futuro è ora.

Il regno di Dio è vicino. Come vicino è Gesù, come in lui si è avvicinato il Signore, come la sua Parola fatta carne, che si può ascoltare, vedere, toccare.

Il regno di Dio nell’Antico Testamento era la promessa della compiuta signoria di Dio sugli uomini, con il corredo di completa liberazione, giustizia, fedeltà, pace, compassione.

Con Gesù è in più un cantiere in costruzione. Comincia qui e ora, finisce Altrove. Pullula dalla terra, contrastato e ancora contraddetto, ma inarrestabile. Ha inarrestabile la forza della luce che si fa spazio tra le tenebre. Queste possono opporre resistenza, riguadagnare posizioni quando la caduta di fede, l’idolatria, pare affievolire il suo splendore. Ma in Cristo è ormai dato per sempre, nella vittoria umile del suo dono di vita che vince la morte e il male.

Allora all’uomo non resta che accettare questo dono, accoglierlo tra le braccia operose: “Convertitevi!” dice Gesù. Fate un’inversione di rotta per passare dalla religione, sforzo dell’uomo, stentato cammino sacrificale, alla fede dono di Dio. Vi è richiesta una mentalità alternativa: entrare nel nuovo, nell’inaudito dello spirito, per imparare i pensieri di Dio e riorientare su di lui la vita.

E soprattutto “credete nel Vangelo”, affidatevi a questo annuncio di gioia, abbandonatevi alla leggerezza di chi è portato dallo spirito, nella lieta consapevolezza di aderire a una persona, non a una morale. Vorrà dire: seguitemi, mettendo il bene dell’uomo al primo posto, crescendo nella fede, nella speranza, nella carità del Regno.

Accettare questa novità è adesso per noi uscire dall’imborghesimento e dalla conservazione, anche a livello ecclesiale; è trarre dai momenti di crisi risorse creative, è confrontarsi con la multiculturalità, è resistere alle provocazioni della paura. Il Regno ora è inventare nuove forme di convivenza politica, sociale, religiosa; è osare soluzioni economiche alternative, dismettendo ingiustizia, prevaricazione, accaparramento.

Il Regno ora e qui ci ricorda che è il non ancora dell’Altrove.

 

Raffaela Brignola

(Comunità Kairos)

 

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