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Le scuole cattoliche in Sicilia. Un’altra voce

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di Nicola Filippone

 

 

Ho letto con molto interesse l’articolo di Augusto Cavadi sulle scuole paritarie e ho apprezzato la lucidità della sua analisi alla quale peraltro sono abituati i suoi lettori. Desidero aggiungere un modesto contributo a quanto da lui scritto, basandolo sulla mia esperienza ultraventennale di docente di un istituto cattolico nel quale, da cinque anni, ho anche la responsabilità della presidenza.

 

 

   A quelle da lui considerate – e ritenute ormai in parte superate – dobbiamo aggiungere altre ragioni, ancora estremamente valide e attuali, che possono indurre una famiglia a scegliere la scuola cattolica. Per esempio preferirne una incentrata sulla persona del ragazzo. Tale motivazione, che si ispira anche alla carta costituzionale, si attua innanzitutto nella costruzione e nel mantenimento di una relazione con ciascun allievo fin dal momento dell’iscrizione, che non avviene soltanto attraverso la compilazione di un modulo (nella statale on line), ma dopo un incontro e un colloquio con la famiglia e principalmente col ragazzo che desidera frequentare. Essa continuerà lungo l’intero percorso di studi e coinvolgerà, almeno per ciò che riguarda la nostra realtà, tutti i responsabili dell’educazione, dal direttore agli animatori, dal preside ai docenti, dallo psicologo al confessore, questi ultimi solo se richiesti. Ritengo che tale aspetto sia quello più atteso da alunni e famiglie e costituisca oggi la marcia in più che una scuola debba offrire. È certamente impegnativo (personalmente tengo circa 500 colloqui l’anno), ma necessario e imprescindibile. Anche perché quella del profitto è ormai soltanto una delle dimensioni concernenti la vita dello studente. Egli è fondamentalmente desideroso di un ambiente in cui sia ascoltato, considerato, voluto bene, in cui trovi la serenità che spesso manca a casa, indispensabile per un buon rendimento.

 

 

   Tutto ciò crea le premesse ad un’altra importante motivazione: fare in modo che il giovane percepisca la scuola non solamente come istituzione da frequentare, ma come luogo in cui vivere. Non come uno spazio in cui stare cinque o sei ore, ma come una realtà che gli appartiene, dove può fermarsi anche dopo il suono dell’ultima campana ed entrare in qualunque momento della giornata. La scuola assume così la connotazione di una casa in cui i ragazzi rimangono o tornano per studiare, per partecipare alle varie attività proposte (teatro, sport, approfondimenti culturali, recuperi), oppure semplicemente per affermare, con la loro presenza, un diritto associato al piacere di respirare un’aria familiare, di rivisitare, in un’ottica più distesa delle ore di lezione, degli ambienti che sentono loro. Queste sensazioni non scaturiscono dal pagamento di una retta, che in qualche modo assegnerebbe la quota di un bene di cui fruire, ma dalla consapevolezza di far parte di una realtà in virtù di una relazione che non si esaurisce mai, come dimostra l’incessante flusso di exallievi che continuano a frequentare l’istituto dove sono vissuti per anni o a iscrivervi i loro figli. Mi permetto di ribadire quanto dissi un anno fa in un convegno cittadino, alla presenza di varie autorità politiche, accademiche e scolastiche: sono fermamente convinto che il fenomeno delle occupazioni esprima questo desiderio di vivere la scuola, insito in ogni studente. Fino a quando se ne continuerà a parlare o in termini ideologici o, peggio ancora, come di un sistematico stratagemma per anticipare le vacanze di Natale, non se ne verrà mai a capo.

 

   Spesso i genitori scelgono la scuola paritaria (e dunque pubblica, non privata!) cattolica perché vogliono ancora che i figli ricevano una formazione. Questo concetto, toccato pure da Cavadi, è delicato e controverso perché formare un alunno potrebbe significare plasmarlo e dunque imporgli dall’esterno una forma ideologica o dottrinale. Ma in un’accezione per così dire metafisica la forma non è un involucro, un mero rivestimento, ma una componente sostanziale. Formare può voler dire allora aiutare il ragazzo a scoprire la sua essenza profonda, accompagnarlo nella scoperta e nell’accettazione di sé.

 

   Ancora qualche precisazione. Preferisco sorvolare sull’aggettivo “confessionale” con cui il prof. Cavadi si riferisce alle scuole cattoliche perché sono sicuro si sia trattato di una svista, lo stimo troppo per credere che abbia potuto usarlo con convinzione. Io non so quale sia stata la sua esperienza, ma posso assicurare, e con me centinaia di allievi e migliaia di exallievi, che nel mio istituto non si esercita nessuna forma di “accanimento catechetico”. Non vorrei scandalizzare nessuno, ma posso dichiarare di lavorare in una scuola laica, nell’accezione più nobile, che però non rinuncia alla sua identità cattolica e salesiana, che promuove la sintesi di cultura e Vangelo e che educa alla solidarietà e anche alla carità. E tuttavia essa opera nel rispetto delle libertà di ciascuno e tra i suoi alunni ha annoverato cattolici, musulmani, protestanti, agnostici e atei, iscritti a gruppi di ispirazione marxista o di estrema destra, aderenti al Movimento per la Vita, ecologisti e liberali o del tutto indifferenti verso la politica. Per noi vale sempre quello che ci ha consegnato Don Bosco: mi basta sapere che siete giovani perché vi ami assai. Siamo convinti che i principi cristiani siano pure antropologici e che attraverso di essi si debba contribuire alla costruzione di una società migliore, giusta e onesta, ma crediamo che la libertà sia un bene dinanzi al quale Dio stesso si ferma.

 

   Quanto alla dolorosa esperienza vissuta dal prof. Cavadi agli esami di Stato, non credo si debba generalizzare, non so quali elementi egli abbia per affermare che non si sia trattato di un caso isolato e che ci sia addirittura un “trend abituale”. Così come vorrei capire quali strumenti di valutazione egli abbia per misurare la deontologia professionale e giudicare quella delle scuole cattoliche “inferiore alla media”. Qual è la media? Per quello che può valere, la mia è una testimonianza che contiene un trend opposto, sono stato commissario interno d’esami innumerevoli volte – cominciai nel 1998 – ho sperimentato tutte le riforme e quindi ho praticato tutte le tipologie finora attuate. Non ricordo nessuna defezione da parte dei colleghi esterni e, tranne un anno in cui avemmo una presidente che iniquamente si accanì contro i ragazzi per evidenti motivi ideologici e pregiudizievoli, con tutti gli altri ho sempre trascorso momenti molto belli a livello umano e professionale, con alcuni continuiamo a sentirci, a scambiarci gli auguri e di molti di essi mi è capitato di cogliere il desiderio di tornare, che in qualche caso si è pure avverato.

 

   Un’ultima riflessione sul buono scuola, come è stato ampiamente spiegato la scuola cattolica non chiede soldi, ma si batte per la libertà di educazione, così come previsto dai costituenti. È troppo evidente che finché una scelta sarà subordinata al pagamento di una retta, non sarà mai libera. Pur tuttavia al “Don Bosco Ranchibile” anche quest’anno gli iscritti sono stati numerosi e di ciò siamo grati alle tante famiglie che con notevoli sacrifici non rinunciano all’esercizio di un loro diritto. 

 

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